La Parola di Dio di questa
XVIII Domenica del TO ci invita a riflettere sulla
precarietà dell’esistenza umana ed impegnarci a vivere in
questo mondo con lo sguardo rivolto verso l’eternità, per
recuperare quella sapienza che viene dal Cielo e da Dio e
che abbiamo quasi completamente dimenticato nel nostro agire
quotidiano.
La prima lettura tratta dal
libro del Qoelet, ci parla della vanità di ogni cosa umana e
terrena, ovvero della precarietà dell’esistenza umana e dei
beni materiali.
La seconda lettura, tratta
dalla lettera di San Paolo Apostolo ai Colossesi, è un
invito esplicito a liberarci dalle cose che passano, dagli
attaccamenti morbosi a persone e beni di questo mondo: “Se
siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si
trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di
lassù, non a quelle della terra”. San Paolo parla
chiaramente del destino eterno dell’uomo e di come agire in
questo mondo, liberandoci da tante forme di schiavitù: mania
di successo, di piacere, di benessere, delle cose che
contano solo su questa terra e per le quali si lotta, si fa
guerra, si distruggono gli altri, ci si affanna
nell’illusione che possano darci la felicità. È, purtroppo,
la tragica fotografia di questo tempo, dove le denunce fatte
da San Paolo nella lettera ai Colossesi sembrano dirette ai
tanti nostri modi di pensare, esprimersi e vivere.
Ma è, soprattutto, il brano
evangelico che ci spinge a valutare attentamente i beni
della terra nella continua ricerca dei beni del cielo,
ricordandoci che siamo pellegrini su questa terra in cammino
verso l’eternità.
All’origine dell’insegnamento
di questo brano di Vangelo c’è una disputa per una eredità
tra due fratelli: uno dei due si rivolge a Gesù nella
speranza di ottenere giustizia, ma Gesù, come spesso fa,
risponde con una domanda: “O uomo, chi mi ha costituito
giudice o mediatore sopra di voi?”. Già qui, ancora
prima della parabola che racconterà fra poco, c’è un
elemento che va al di là del problema particolare
dell’eredità, e anche dell’attaccamento ai beni materiali: a
volte Dio non risponde alle nostre domande semplicemente
perché sono poste male ma perché partono da una prospettiva
nella quale Dio non vuole lasciarsi rinchiudere, partono da
premesse che sono già sbagliate. Chi gli aveva chiesto di
risolvere un problema non si accorgeva che a monte c’era
qualcosa di ben più importante: l’attaccamento ai beni
materiali. Non sappiamo come avrà reagito alla risposta di
Gesù: se ne è andato deluso, pensando che a Gesù non
interessasse niente dei suoi problemi e della giustizia;
oppure ha seguito Gesù nel suo ragionamento, si è lasciato
guidare verso una nuova prospettiva, ha capito che dentro il
rifiuto di Gesù c’era un dono ancora più grande, ha capito
che occorreva andare alla radice del problema: l’egoismo.
Nemmeno Gesù poteva riuscire a mettere d’accordo i due
fratelli se restavano prigionieri del loro egoismo. Liberati
dall’egoismo, i due fratelli non avrebbero più avuto bisogno
di Gesù per spartire l’eredità, avrebbero trovato un
accordo.
La parabola raccontata da
Gesù, piena di meschino egoismo e priva di ogni accenno alla
solidarietà, ha lo scopo di mettere a fuoco, dentro ognuno
di noi, il difficile tema del rapporto con i beni della
terra.
Non possiamo fondare la
nostra vita sull’accumulare beni e tesori materiali,
dimenticandoci che quello che mettiamo da parte, spesso
senza fare del bene agli altri, non ce lo porteremo
all’altro mondo, ma lo lasceremo.
Questa parabola ci dice la
necessità di essere più distaccati dal possedere e
dall’accumulare per essere, invece, più generosi ed
altruisti nella vita di tutti i giorni specie se siamo nelle
condizioni materiali ed economiche di poter dare e dare con
una certa abbondanza.
Questo non significa che Gesù
disprezza i beni della terra o che contesta le gioie della
vita come se volesse farci distaccare dalla vita stessa; il
Vangelo dà per scontato che la vita umana sia, e non può
essere diversamente, un’incessante ricerca di felicità. Gesù
contesta i nostri miti ricorrenti: il mito della ricchezza
come fonte di felicità, il mito del profitto come regola di
vita, del conto bancario come sicurezza del domani.
Quel ricco, prigioniero del
suo “io” ripete un unico aggettivo: “il mio raccolto, i
miei granai, i miei beni, la mia anima”; vive
ossessionato dal “mio” e nessun’altro affetto trova posto in
quella vita desolata, vissuta in prossimità della morte: “Questa
notte stessa ti sarà chiesta la tua vita”.
La sentenza di Gesù è
precisa: “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni
cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua
vita non dipende da ciò che egli possiede”.
Diciamo e sentiamo
continuamente dire che non l’avere, ma l’essere qualifica
una persona e di questo siamo tutti più che convinti. Ma è
questo “essere” che spesso resta vuoto e che va riempito,
altrimenti è solo “apparire”. Essere intelligente, essere
operoso e giusto, essere importante e lasciare una memoria,
essere dei signori e non tanto dei ricchi ... è tutto un
“essere buono”, ma non sufficiente se è solo un darsi da
fare per far credere di essere: il nostro avere e il nostro
fare qualificheranno pienamente il nostro “essere” solo se
sarà un arricchirsi davanti a Dio.
Purtroppo la ricchezza porta
più facilmente a soddisfare “quella parte di noi che
appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni,
desideri cattivi e quell’avarizia insaziabile che è
idolatria” e , per denaro, vediamo quante tragedie
sociali si producono: tangentopoli, illegalità, mafia,
stragi...!
Il cristiano non è fuori dalla storia e,
quindi, non è esente da queste realtà. Dai criteri
evangelici la Chiesa ha saputo trarre una precisa e
illuminante dottrina sociale per quel che concerne il retto
uso dei beni economici con documenti come l’enciclica
“Centesimus Annus”. Ma al di là dei documenti sta un fatto
di base: il mondo non si cambia con regole nuove, ma col
cuore nuovo e, quindi, con uomini nuovi, rinnovati dalla
Grazia di Cristo. Ce lo dice san Paolo: “