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Riflessione sulle Letture Festive

a cura del Diacono Gaetano Bellino

 

Anno Liturgico 2009-2010 (Anno C)

 

 

7 Marzo 2010 - III Domenica di Quaresima (Anno C)

Pubblicato: domenica 28 febbraio 2010

Se vuoi, prima di leggere la riflessione, clicca qui per le letture dal Lezionario

La parabola che Gesù racconta nel brano di Vangelo di questa III domenica di Quaresima sembra aver per oggetto il fico sterile, invece è uno di quei racconti che rivelano l’Amore misericordioso di Dio che, nel Figlio Gesù, il “vignaiolo”, si schiera dalla parte dell’uomo e ottiene ancora del tempo, perché, alle troppe inutili foglie, si sostituiscano i frutti delle opere che durano per la vita eterna.

Noi tutti, usciti dalle incredibili mani di Dio e creati per la sola ragione di essere santi e quindi eredi del Paradiso, troviamo difficoltà ad ascoltare la Voce di Dio; ci facciamo, al contrario, facilmente persuadere dal principe di questo mondo, satana, che sa inventare mille insidie per catturarci e fare della nostra vita una terribile schiavitù del male. Allora siamo infelici... tanto infelici... e anziché essere alberi che rallegrano la terra per i tanti frutti che producono, frutti di carità, di santità, preferiamo essere alberi che fanno sfoggio di sole foglie come se queste fossero il fine per cui l’albero è stato piantato. Basta avere occhi capaci di osservare in profondità noi stessi e tanti fratelli, che sono attorno a noi e ci accorgiamo che spesso la vita è ridotta ad una chiacchierata senza senso, senza contenuto... ossia alberi di sole foglie. Torna, allora, ancora una volta l’accorata voce del Padre che scende tra noi, come fece nell’Eden con Adamo ed Eva e ci cerca con quell’immutabile Amore che è la sua natura e si rivolge a ciascuno di noi: “Uomo, dove sei?”. In altre parole: “Torna a casa. Sii quello che certamente, nel profondo della verità del cuore, vorresti essere, ma non sai o non vuoi liberarti, come se le carrube destinate ai porci, unico cibo che offre satana, ti potessero saziare”. La causa di tutto questo siamo noi che, ingannati dal principe del mondo o dalla nostra superbia o dalla nostra ignoranza, preferiamo tapparci le orecchie per non sentire la dolcissima voce del Padre: “Uomo dove sei?”. Sappiamo che abbiamo bisogno di una vera conversione interiore, ma stentiamo a voltare le spalle ad una vita che dà amarezza, e abbiamo come paura di fissare il nostro sguardo su Gesù e accettare la sua mano.

Tutta la Storia della salvezza corre sul filo di un dialogo che Dio intende riannodare con l’Uomo. Riconoscere la voce e il passaggio di Dio è urgente per l’Uomo perché è questione di vita o di morte. Riconoscere la sua voce significa aprirsi ed intessere un dialogo che fiorisce in amicizia, intimità, intrecci di vita (prima lettura). Non riconoscere la sua voce è, per l’uomo, rivivere la medesima amara esperienza dell’Israele antico, durante l’attraversata del deserto (seconda lettura). Non riconoscere il passaggio di Dio può riservare un’amara sorpresa: quella di ritrovarsi in un’esistenza sterile, senza frutti (Vangelo). Una vita non ricca di opere buone a che serve? È come un albero senza frutti; le conseguenze ce le ha dette Gesù!

S. Luca in questo brano di Vangelo riporta due fatti di cronaca che, per noi, suonano come un pressante invito ad un impegno personale, serio, vitale di conversione. Assistiamo, prima, ad un dialogo fra Gesù ed alcuni che Lo seguivano: gli pongono una di quelle domande imbarazzanti che forse potremmo porGli anche noi di fronte a fatti atroci che non sappiamo spiegarci... Pilato, con l’arroganza dei potenti, che si credono “padroni e non servi degli uomini”, seguendo la sola regola del potere, non solo aveva ordinato la morte per alcuni Galilei, ma questa condanna doveva essere eseguita addirittura in un luogo sacro, al punto che il sangue degli uccisi si mescolò con il sangue dei sacrifici rituali. Poi Gesù cita un fatto capitato a Siloe, dove morirono 18 persone per il crollo di una torre. La domanda è: “di quali colpe si sono macchiati i tanti che muoiono a causa della prepotenza o del delirio di onnipotenza di qualcuno o per cause naturali, come nei terremoti, nelle alluvioni, nelle frane o in altre catastrofi naturali?”. Ci risponde Dio stesso con quella solenne dichiarazione, che esce direttamente dalla Sua bocca e che leggiamo nella chiamata rivolta a Mosè: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei sorveglianti: conosco, infatti, le sue sofferenze. Sono sceso a liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele”.

Una solenne dichiarazione di Dio che non si sofferma a guardare le sofferenze o gli sbandamenti dell’umanità come facciamo noi fermandoci, forse, al solo gesto di strapparci i capelli per l’indignazione, ma senza porre rimedio, Dio “si fa vicino all’uomo”, alla sua disperazione alla sua affannosa ricerca di serenità dell’anima che è il ritrovare, nella conversione, la tenerezza dell’Amore del Padre e la dolcezza del Suo sguardo. Allora si capisce che fingere di scandalizzarsi che le cose non vanno bene... gridare che bisogna mettere fine a questo sconcio di mondo, che pare abbia abbattuto tutte le frontiere della bontà, della giustizia, della stessa dignità, è come nascondere la propria nudità dietro la foglia di fico, è come aver fatto naufragio in una pozzanghera se si fa solo per farsi vedere interessati ma senza essere personalmente coinvolti e senza dare il proprio contributo per la soluzione.

Coloro che riportano i due fatti a Gesù aspettandosi una condanna del tiranno romano o una considerazione facile sul destino e sulla fatalità degli eventi si vedono, invece, costretti da Gesù a spostare l’attenzione sulla propria indifferenza e superficialità e si sentono chiamati in causa personalmente da Gesù che provoca ad un’urgente conversione. Insomma Gesù prende spunto da quei due fatti di cronaca e ne sottolinea il valore esemplare ricordando che improvviso sarà il giudizio di Dio su questa Storia di umanità corrotta e reticente alla conversione.

... Lascialo ancora, quest’anno...” è la richiesta con cui il vignaiolo si rivolge al padrone dell’albero e che ci deve indurre a considerare, con molta attenzione, l’uso del tempo che, troppo spesso, diamo per scontato quando scontato non è. Il tempo è dono della misericordia di Dio, un tempo da percorrere nel desiderio di Lui, che ci attende, per vivere con noi la piena comunione come da figli a Padre. L’uso del tempo nel lungo cammino della vita ci deve interpellare; in modo particolare in questo tempo di Quaresima che, ancora una volta, ci è offerto come itinerario di fede più luminosa e intensa, di speranza più certa e come impegno di conversione; impegno a volgere tutto il nostro essere verso Dio, per una più profonda conoscenza di Lui, per un ascolto più attento della sua Parola, per una scelta forte e chiara di tutto ciò che ci avvicina a Lui e lasciando da parte, invece, quanto da Lui ci allontana. C’è tutto un lavoro da fare, che richiama quello simboleggiato nel progetto del vignaiolo: “lascialo ancora quest’anno, finché io lo zappi attorno e vi metta concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire...”; fuori  metafora, si tratta del cammino di conversione, quell’urgenza sulla quale Gesù ammonisce: “se non vi convertite, perirete tutti, allo stesso modo...”.

La Quaresima è, dunque, il tempo, durante il quale si riprende, con maggior slancio e maggior cura, il nostro esodo, il personale, concreto allontanarci dal multiforme, insidioso mondo del male, per scegliere, sempre più decisamente e appassionatamente, Cristo Figlio di Dio, Redentore e Maestro dell’umanità. Come l’antico Esodo, il nostro esodo, va verso la liberazione più vera e profonda; quella libertà che ci viene dall’essere salvati e resi figli di Dio. Si tratta di un percorso lungo e faticoso, talvolta drammatico, come quello del popolo che camminò a lungo nel deserto; tuttavia, parlare di esodo non significa parlare di un mito, ma di un impegno concreto a crescere a misura di Cristo. Oggi, nel contesto reale del nostro vissuto, con le inquietudini e i problemi di questo tempo compiere una parte del nostro esodo significa impegnarci interiormente, per rendere, poi, credibile e vera la nostra testimonianza a Cristo, in una società e in un momento in cui, troppi, sembrano volerLo emarginare. Nel nostro esodo non siamo soli; sappiamo, come anche Mosè sapeva, che una Presenza forte ci conduce e sempre ci ripete quelle parole la cui eco non si spegnerà: «Io sono tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, di Giacobbe.. Ho osservato la miseria del mio popolo...conosco, infatti le sue sofferenze.... Sono sceso per liberarlo...». Il cammino della vita, lo sappiamo bene, è fatto di fallimenti, di cadute, di prove a volte molto dure, ma questo non deve indurci alla diffidenza nei confronti del Padre. Ammonisce San Paolo “Fratelli non mormorate, come mormorarono alcuni di essi..”. “Mormorare” contro Dio, è come allontanarsi da Lui, per ripiegare su se stessi; non è questa la via della salvezza, mormorare è soltanto una pericolosa china verso la disperazione. Il dialogo con Dio, la preghiera, è ciò che veramente illumina e dà forza al cammino di conversione; è un parlare ed ascoltare, che non deve essere mai interrotto, né dalla fatica, né dal momentaneo insuccesso o da qualsiasi forma di sconforto anzi, proprio in questi momenti, l’uomo deve vivere la sua resa fiduciale a Dio, l’affidamento a Lui, nella certezza che Lui solo salva, come il salmo responsoriale esorta a fare:

Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici. Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie;salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di misericordia... Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia su quanti lo temono “ ( sl.102 ) 

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