La
parabola che Gesù racconta nel brano di Vangelo di questa
III domenica di Quaresima sembra aver per oggetto il fico
sterile, invece è uno di quei racconti che rivelano l’Amore
misericordioso di Dio che, nel Figlio Gesù, il “vignaiolo”,
si schiera dalla parte dell’uomo e ottiene ancora del tempo,
perché, alle troppe inutili foglie, si sostituiscano i
frutti delle opere che durano per la vita eterna.
Noi tutti, usciti dalle
incredibili mani di Dio e creati per la sola ragione di
essere santi e quindi eredi del Paradiso, troviamo
difficoltà ad ascoltare la Voce di Dio; ci facciamo, al
contrario, facilmente persuadere dal principe di questo
mondo, satana, che sa inventare mille insidie per catturarci
e fare della nostra vita una terribile schiavitù del male.
Allora siamo infelici... tanto infelici... e anziché essere
alberi che rallegrano la terra per i tanti frutti che
producono, frutti di carità, di santità, preferiamo essere
alberi che fanno sfoggio di sole foglie come se queste
fossero il fine per cui l’albero è stato piantato. Basta
avere occhi capaci di osservare in profondità noi stessi e
tanti fratelli, che sono attorno a noi e ci accorgiamo che
spesso la vita è ridotta ad una chiacchierata senza senso,
senza contenuto... ossia alberi di sole foglie. Torna,
allora, ancora una volta l’accorata voce del Padre che
scende tra noi, come fece nell’Eden con Adamo ed Eva e ci
cerca con quell’immutabile Amore che è la sua natura e si
rivolge a ciascuno di noi: “Uomo, dove sei?”. In
altre parole: “Torna a casa. Sii quello che certamente, nel
profondo della verità del cuore, vorresti essere, ma non sai
o non vuoi liberarti, come se le carrube destinate ai porci,
unico cibo che offre satana, ti potessero saziare”. La causa
di tutto questo siamo noi che, ingannati dal principe del
mondo o dalla nostra superbia o dalla nostra ignoranza,
preferiamo tapparci le orecchie per non sentire la
dolcissima voce del Padre: “Uomo dove sei?”. Sappiamo
che abbiamo bisogno di una vera conversione interiore, ma
stentiamo a voltare le spalle ad una vita che dà amarezza, e
abbiamo come paura di fissare il nostro sguardo su Gesù e
accettare la sua mano.
Tutta la Storia della
salvezza corre sul filo di un dialogo che Dio intende
riannodare con l’Uomo. Riconoscere la voce e il passaggio di
Dio è urgente per l’Uomo perché è questione di vita o di
morte. Riconoscere la sua voce significa aprirsi ed
intessere un dialogo che fiorisce in amicizia, intimità,
intrecci di vita (prima lettura). Non riconoscere la sua
voce è, per l’uomo, rivivere la medesima amara esperienza
dell’Israele antico, durante l’attraversata del deserto
(seconda lettura). Non riconoscere il passaggio di Dio può
riservare un’amara sorpresa: quella di ritrovarsi in
un’esistenza sterile, senza frutti (Vangelo). Una vita non
ricca di opere buone a che serve? È come un albero senza
frutti; le conseguenze ce le ha dette Gesù!
S. Luca in questo brano di
Vangelo riporta due fatti di cronaca che, per noi, suonano
come un pressante invito ad un impegno personale, serio,
vitale di conversione. Assistiamo, prima, ad un dialogo fra
Gesù ed alcuni che Lo seguivano: gli pongono una di quelle
domande imbarazzanti che forse potremmo porGli anche noi di
fronte a fatti atroci che non sappiamo spiegarci... Pilato,
con l’arroganza dei potenti, che si credono “padroni e non
servi degli uomini”, seguendo la sola regola del potere, non
solo aveva ordinato la morte per alcuni Galilei, ma questa
condanna doveva essere eseguita addirittura in un luogo
sacro, al punto che il sangue degli uccisi si mescolò con il
sangue dei sacrifici rituali. Poi Gesù cita un fatto
capitato a Siloe, dove morirono 18 persone per il crollo di
una torre. La domanda è: “di quali colpe si sono macchiati i
tanti che muoiono a causa della prepotenza o del delirio di
onnipotenza di qualcuno o per cause naturali, come nei
terremoti, nelle alluvioni, nelle frane o in altre
catastrofi naturali?”. Ci risponde Dio stesso con quella
solenne dichiarazione, che esce direttamente dalla Sua bocca
e che leggiamo nella chiamata rivolta a Mosè: “Ho
osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il
suo grido a causa dei sorveglianti: conosco, infatti, le sue
sofferenze. Sono sceso a liberarlo dalla mano dell’Egitto e
per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e
spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele”.
Una solenne dichiarazione di
Dio che non si sofferma a guardare le sofferenze o gli
sbandamenti dell’umanità come facciamo noi fermandoci,
forse, al solo gesto di strapparci i capelli per
l’indignazione, ma senza porre rimedio, Dio “si fa vicino
all’uomo”, alla sua disperazione alla sua affannosa ricerca
di serenità dell’anima che è il ritrovare, nella
conversione, la tenerezza dell’Amore del Padre e la dolcezza
del Suo sguardo. Allora si capisce che fingere di
scandalizzarsi che le cose non vanno bene... gridare che
bisogna mettere fine a questo sconcio di mondo, che pare
abbia abbattuto tutte le frontiere della bontà, della
giustizia, della stessa dignità, è come nascondere la
propria nudità dietro la foglia di fico, è come aver fatto
naufragio in una pozzanghera se si fa solo per farsi vedere
interessati ma senza essere personalmente coinvolti e senza
dare il proprio contributo per la soluzione.
Coloro che riportano i due
fatti a Gesù aspettandosi una condanna del tiranno romano o
una considerazione facile sul destino e sulla fatalità degli
eventi si vedono, invece, costretti da Gesù a spostare
l’attenzione sulla propria indifferenza e superficialità e
si sentono chiamati in causa personalmente da Gesù che
provoca ad un’urgente conversione. Insomma Gesù prende
spunto da quei due fatti di cronaca e ne sottolinea il
valore esemplare ricordando che improvviso sarà il giudizio
di Dio su questa Storia di umanità corrotta e reticente alla
conversione.
“... Lascialo ancora,
quest’anno...” è la richiesta con cui il vignaiolo si
rivolge al padrone dell’albero e che ci deve indurre a
considerare, con molta attenzione, l’uso del tempo che,
troppo spesso, diamo per scontato quando scontato non è. Il
tempo è dono della misericordia di Dio, un tempo da
percorrere nel desiderio di Lui, che ci attende, per vivere
con noi la piena comunione come da figli a Padre. L’uso del
tempo nel lungo cammino della vita ci deve interpellare; in
modo particolare in questo tempo di Quaresima che, ancora
una volta, ci è offerto come itinerario di fede più luminosa
e intensa, di speranza più certa e come impegno di
conversione; impegno a volgere tutto il nostro essere verso
Dio, per una più profonda conoscenza di Lui, per un ascolto
più attento della sua Parola, per una scelta forte e chiara
di tutto ciò che ci avvicina a Lui e lasciando da parte,
invece, quanto da Lui ci allontana. C’è tutto un lavoro da
fare, che richiama quello simboleggiato nel progetto del
vignaiolo: “lascialo ancora quest’anno, finché io lo
zappi attorno e vi metta concime e vedremo se porterà frutto
per l’avvenire...”; fuori metafora, si tratta del
cammino di conversione, quell’urgenza sulla quale Gesù
ammonisce: “se non vi convertite, perirete tutti, allo
stesso modo...”.
La Quaresima è, dunque, il
tempo, durante il quale si riprende, con maggior slancio e
maggior cura, il nostro esodo, il personale, concreto
allontanarci dal multiforme, insidioso mondo del male, per
scegliere, sempre più decisamente e appassionatamente,
Cristo Figlio di Dio, Redentore e Maestro dell’umanità. Come
l’antico Esodo, il nostro esodo, va verso la liberazione più
vera e profonda; quella libertà che ci viene dall’essere
salvati e resi figli di Dio. Si tratta di un percorso lungo
e faticoso, talvolta drammatico, come quello del popolo che
camminò a lungo nel deserto; tuttavia, parlare di esodo non
significa parlare di un mito, ma di un impegno concreto a
crescere a misura di Cristo. Oggi, nel contesto reale del
nostro vissuto, con le inquietudini e i problemi di questo
tempo compiere una parte del nostro esodo significa
impegnarci interiormente, per rendere, poi, credibile e vera
la nostra testimonianza a Cristo, in una società e in un
momento in cui, troppi, sembrano volerLo emarginare. Nel
nostro esodo non siamo soli; sappiamo, come anche Mosè
sapeva, che una Presenza forte ci conduce e sempre ci ripete
quelle parole la cui eco non si spegnerà: «Io sono tuo
padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, di Giacobbe.. Ho
osservato la miseria del mio popolo...conosco, infatti le
sue sofferenze.... Sono sceso per liberarlo...». Il
cammino della vita, lo sappiamo bene, è fatto di fallimenti,
di cadute, di prove a volte molto dure, ma questo non deve
indurci alla diffidenza nei confronti del Padre. Ammonisce
San Paolo “Fratelli non mormorate, come mormorarono
alcuni di essi..”. “Mormorare” contro Dio, è come
allontanarsi da Lui, per ripiegare su se stessi; non è
questa la via della salvezza, mormorare è soltanto una
pericolosa china verso la disperazione. Il dialogo con Dio,
la preghiera, è ciò che veramente illumina e dà forza al
cammino di conversione; è un parlare ed ascoltare, che non
deve essere mai interrotto, né dalla fatica, né dal
momentaneo insuccesso o da qualsiasi forma di sconforto
anzi, proprio in questi momenti, l’uomo deve vivere la sua
resa fiduciale a Dio, l’affidamento a Lui, nella certezza
che Lui solo salva, come il salmo responsoriale esorta a
fare:
“Benedici il Signore,
anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici. Egli perdona
tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie;salva
dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di
misericordia... Come il cielo è alto sulla terra, così è
grande la sua misericordia su quanti lo temono “ ( sl.102
)