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Riflessione sul Vangelo Festivo

a cura del Diacono Gaetano Bellino

 

Anno Liturgico 2009-2010 (Anno C)

 

 

14 Febbraio 2010 - VI Domenica del tempo Ordinario (Anno C)

Pubblicato: domenica 7 febbraio 2010

Se vuoi, prima di leggere la riflessione, clicca qui per le letture dal Lezionario

La liturgia della Parola di questa domenica è incentrata sul discorso delle “beatitudini” scritto da Luca che, a differenza di quello tramandato da Matteo, è arricchito da una pennellata d’ombra che dà risalto alla luce. Ci sono, cioè, quattro “guai” che ci mettono in guardia su ciò che può “inguaiarci” in una falsa beatitudine che è, poi, menzogna e distruzione della vera gioia.

Gesù, che nella sinagoga di Nazareth aveva fatto sue le parole di Isaia e la missione da lui annunciata di portare il lieto messaggio ai poveri, segno della predilezione degli ultimi, da parte di Dio, ora fissa il suo sguardo su quella folla, carica di povertà e ricca solo di speranza, in quel giovane profeta che avrebbe potuto guarire, consolare e liberare, perfino dagli spiriti immondi: tutti, infatti, sapevano che da lui “usciva una potenza che guariva...” ( Lc. 6,19 )

Gesù che, precedentemente, si era ritirato sul monte in preghiera, prima di scegliere i dodici che lo avrebbero seguito più da vicino e avrebbero condiviso la sua missione, ora scende dal monte e si ferma, come Luca precisa: “in un luogo pianeggiante...”.

Il brano evangelico di due domeniche fa, che narra di Gesù nella Sinagoga,  si concludeva con Gesù che si allontanava dalla gente che, non avendo avuto fede in Lui voleva gettarlo giù dal dirupo; nel racconto di questa Domenica, invece, Egli sembra confondersi con tutti quei poveri accorsi a Lui e desiderosi non solo di ascoltarlo ma di toccarlo, nella certezza, che quel contatto avrebbe potuto risanarli.

Prima di iniziare il suo discorso che, ancora oggi ha dell’incredibile, Gesù posa lo sguardo sui suoi discepoli (non tutti i presenti, infatti erano seguaci di Gesù) e, con questo gesto, li invita tacitamente, a quella sequela che li farà “beati”.

Beati, voi poveri,...beati, voi, che ora avete fame,...beati voi che piangete..., beati voi quando gli uomini vi odieranno, vi metteranno al bando,...vi insulteranno.... a causa del Figlio dell’Uomo...”; con questo discorso Gesù non esalta né il pianto, né la fame, né l’indigenza, né la persecuzione o quant’altro rechi dolore all’uomo, ma afferma che la fede in Lui, il Figlio di Dio, che ha condiviso e preso su di sé tutto il dolore dell’uomo, può trasformare in beatitudine anche le situazioni di sofferenza estrema; il racconto, infatti, si conclude con quell’ammonimento terribile, quel: “Guai a voi”, più volte ripetuto, all’indirizzo di quanti, chiusi nel loro soddisfatto egoismo e nella loro superba autosufficienza, vivono incuranti di Dio e del prossimo bisognoso di aiuto, di giustizia e di solidarietà.

Uno di questi “guai” riguarda chi vive da “sazio” e non da “affamato”. La beatitudine, al contrario, suona così: “Beati gli affamati perché saranno saziati”. Ma quale è, dunque, la “fame” che può renderci “beati”? E quale è la sazietà a cui la Parola si riferisce? Si tratta di una “sazietà” che dapprima assopisce, poi addormenta e da ultimo spegne in noi la “fame e sete di Dio” e della sua giustizia che è santità. Una sazietà che ci porta a vivere ingrassandoci di beni solo terreni; a soddisfarci, appunto fino alla sazietà, di tutte le brame: quella del mangiare, del bere, del comperare, spesso a caro prezzo, cose inutili e riempitivi vari. Una sazietà che ci porta a non essere mai abbastanza “sazi” di gratificazioni, le più varie: da quella di sentirsi ammirati, complimentati, approvati, a quella di cercare il pieno appagamento in tutte le possibili comodità.

Diceva S. Giovanni Bosco ai suoi giovani: «Da tavola bisogna alzarsi ancora con un pizzico di appetito. Quanto abbuffarsi, a volte, anche con danno della salute fisica! Quanto alla salute spirituale bisogna dire che, se cammini col Signore, non sei mai sazio neppure di ogni bellezza, verità e bontà. Tutto ti diventa sereno stimolo ad andare oltre. C’è sempre un “più” alla mia fame di bene, se il Signore è il mio sole, la mia meta, il tutto che illumina e dà senso al relativo delle mie giornate».

La “beatitudine”, qualunque sia la condizione in cui l’uomo vive, sta nell’incontrare Cristo, e fare di Lui la pietra angolare, la roccia su cui costruire tutta l’esistenza.

Solo la fede in Gesù, Figlio di Dio, può dare, allora, ragione della povertà vissuta in pace, del pianto che attende conforto, così, come soltanto la fede può dare la forza nelle persecuzioni, affrontate nel nome di Lui.

Il senso vero della beatitudine possiamo leggerlo, anche, nel breve passo del profeta Geremia che così recita riguardo a chiunque si affidi pienamente a Dio e riponga in Lui tutta la sua speranza: “...beato l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. Egli è come un albero piantato lungo l’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nell’anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti.” (I Lettura)

Chi ha fatto di Cristo, la scelta fondamentale della vita, chi ha Lui come pastore da seguire, Lui come Via da percorrere, nella certezza che la speranza di raggiungere la felicità che non andrà delusa è già beato sulla terra.

Beatitudine è accogliere la parola del Vangelo, in tutta la sua ricchezza; beatitudine è tener presente e vivo Cristo, nella propria vita, e contemplarne il Mistero.

L’amore e la sequela di Cristo, infatti, sono la ragione profonda di tutto il discorso delle beatitudini; al di fuori della fede nel Figlio di Dio, morto e risorto per noi, quelle beatitudini, che parlano di povertà e di pianto, sarebbero soltanto stoltezza, come Paolo scrive: “... se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi, noi abbiamo avuto speranza in Cristo, soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti”. (II Lettura)

Il discorso delle beatitudini è, dunque, un banco di prova della fede e dell’amore a Cristo Redentore; scrive Paolo nella Lettera ai Romani: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?.... Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori in Colui che ci ha amati”. (Rom 8,35-38)

Gesù sa che i poveri, quelli che hanno fame, quelli che piangono, quelli che sono perseguitati, conoscono la fragilità della vita, confidano in Dio più che in sé stessi, sentono il bisogno di essere salvati dal peccato, dalla morte, sono disposti ad aiutarsi a vicenda e aspettano l’aiuto e la salvezza di Dio. Sono quindi nella condizione giusta, nella corretta apertura a Dio per accettare il suo Regno.

La povertà di cui parla Gesù è la scelta per il Regno, la decisione di porsi dietro i passi di Gesù con un cuore disponibile a lasciarsi rinnovare da Dio.

I ricchi, quelli che sono sazi, quelli che ridono e sono contenti di come vanno le cose del mondo, quelli che vengono lodati e approvati da tutti, non sentono il bisogno di Dio, non attendono né sperano nulla da Lui: non avvertono la necessità che Dio li aiuti e li salvi. Non entreranno, quindi, nel Regno di Dio, ma rimarranno chiusi nel loro egoismo. Gesù li considera dei falliti in questa vita, perché non sentiranno mai la gioia di essere figli di Dio, di vivere come fratelli, di sacrificarsi per gli altri. Le parole di Gesù rovesciano la mentalità corrente, quella che stima beati i ricchi e i potenti. È la nuova mentalità dei cristiani, che farà di loro il popolo nuovo della Terra: un popolo attento agli umili, ai miseri, agli emarginati, un popolo che vede Gesù nei sofferenti e spezza con loro il pane.

Dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La beatitudine promessa da Gesù ci insegna che la vera felicità non si trova nelle ricchezze o nel benessere... ma in Dio solo, sorgente di ogni bene e di ogni amore. Ci invita a purificare il cuore dai suoi istinti cattivi e a cercare l’amore di Dio sopra di tutto. [Purtroppo però] alla ricchezza tutta la massa degli uomini tributa un omaggio istintivo. La ricchezza è quindi uno degli idoli del nostro tempo» (n. 1723).

A chi legge le beatitudini di Gesù una domanda viene spontanea: il Regno di Dio si realizzerà solo dopo questa vita, nella casa del Padre, o avrà inizio in questo mondo così satanizzato, quello occidentale almeno, dal consumismo e dall’idolatria del denaro?

Leggendo il Vangelo possiamo vedere come Gesù prevede la realizzazione piena del Regno e delle beatitudini nella casa del Padre; ma affidò anche ai cristiani e alle persone di buona volontà l’inizio della loro realizzazione in questa vita, per dare speranza al mondo, per dare gioia a chi è afflitto e nutrimento a chi soffre la fame.

Dobbiamo ritrovare lo spirito delle beatitudini ed i valori che esse proclamano ed ispirare ad esse i nostri comportamenti. Bisogna che le beatitudini diventino la nostra guida morale. Il regno di Dio è qui in terra, basta cercarlo.

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