14 Marzo 2010 - IV Domenica di Quaresima (Anno C)
Pubblicato:
lunedì 8 marzo 2010
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dal Lezionario
Questa
domenica è chiamata “laetare”, ossia domenica della letizia,
dalla prima parola dell’antifona d’ingresso: “Rallegrati,
Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e
gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi
dell’abbondanza della vostra consolazione”. Si vuole, in
qualche modo, interrompere il rigore del tempo quaresimale.
Il colore viola, segno proprio di un tempo di penitenza,
cede il passo al rosa, per la letizia che viene donata oggi
al nostro cuore, quasi a farci pregustare la gioia della
Pasqua.
Il
vangelo di questa Domenica inizia dicendo che «Si
avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per
ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo:
“Costui riceve i peccatori e mangia con loro”». La
mania di considerare non noi ma, sempre, gli altri
peccatori, si annida quotidianamente nel nostro cuore. La
scelta di Gesù di sedersi con i peccatori è una chiara
indicazione che a quella mensa non possiamo mancare e non si
può delegare nessuno. Non solo: la voglia di vedere sedere o
mettere a sedere qualcun altro in quella tavola è di natura
diabolica. Coloro che sono in piedi e lo ascoltano
dovrebbero essere i primi commensali al tavolo di Gesù
chiedendo quel cibo e quella bevanda che li nutra nel
profondo. Ma se si sceglie di stare in piedi e puntare il
dito si avrà sempre lo stomaco vuoto e la rabbia nel cuore.
Al contrario, riconoscere di avere bisogno della
misericordia di Dio è la nostra salvezza, perché è chiedendo
che ci si salva, è nel tendere la mano che si aprono i
nostri occhi e si lasciano cadere le cataratte
dell’autosufficienza.
Questa
scena che è di scandalo per i benpensanti, per noi è
Vangelo, «buona notizia»: è la “lieta notizia” che Gesù
“frequenta” e cerca i peccatori. Del resto, la liturgia
domenicale è il convito di Gesù con noi peccatori; il
banchetto in cui ci fa mangiare il suo Pane e fa bere il suo
Calice. La liturgia della domenica realizza ogni volta
questi tre versetti del vangelo di Luca. Solo chi si sente
“a posto” non capisce questa pagina evangelica e, tutto
sommato, non riesce neppure a gustare la gioia che da essa
prorompe. Solo chi crede di non avere bisogno di essere
accolto, perdonato e abbracciato ragiona allo stesso modo
dei farisei e degli scribi.
A questo
atteggiamento Gesù risponde raccontando una parabola, la
parabola delle parabole, l’essenza di cosa significa
cristianesimo ed essere cristiani, l’arrivo e la partenza
di ogni cammino personale e comunitario: la parabola del
figlio prodigo, che si incontra con la misericordia del
Padre. Ci sono tanti che non conoscono il grande Cuore del
Padre e vedono in Lui un implacabile giudice pronto a
colpirci, come facciamo tra di noi. Una terribile e falsa
conoscenza di Dio che suona come un’offesa al suo Cuore.
Fa
impressione come il figlio minore mostri quasi un fastidio a
restare con il padre, certo di trovare “fuori” una felicità
maggiore, superiore a quella della casa in cui vive, e senza
neppure chiedersi se, come figlio, possiede qualcosa di
veramente suo, in quanto tutto ha ricevuto dal padre, chiede
sfrontatamente la sua parte: “Dammi la parte che mi
spetta”.
Ricorda
tanto Adamo ed Eva che, non contenti dell’Eden, cedono alla
tentazione di una vita diversa, anzi in competizione con
quella di Chi li aveva creati, illudendosi che altro è
essere “creature”, altro è essere “Creatore”. La creatura
dipende totalmente dal Creatore e tutto quello che ha è un
dono gratuito avuto per amare e rendere gloria. Il Padre,
che ha fatto dono al figlio della libertà, non fa
obbiezioni: gli dona la sua parte e lo lascia andare.
Sembra il
racconto di tanti figli o di tanti sposi, che si lasciano in
cerca di una avventura diversa. In realtà è la vicenda del
popolo eletto, è la storia dell’umanità intera dal primo
uomo, Adamo, allontanatosi da Dio ad ognuno di noi, dal
momento che, tutti abbiamo conosciuto la tentazione di andar
lontano da casa e, in qualche modo, ne abbiamo anche fatto
l’esperienza.
È come un
fatto fisiologico e il Padre lo sa; sa che c’è un momento
dell’esistenza in cui si tenta di crescere ed affermarsi, in
assoluta autonomia, incuranti dell’imprevisto cui si va
incontro. Il figlio che si allontana non sa di sbagliare,
non prevede che andrà incontro a qualcosa che gli si
ritorcerà contro; egli va, inseguendo un’illusione di
libertà e di felicità; crede sia un suo inalienabile diritto
e, in quel momento, nessuno lo ferma, né potrebbe farlo. È
il mistero grande del dono della libertà, che Dio ha fatto
all’ uomo, un dono, che Egli stesso rispetta, pur vigilando,
con la potenza infinita del suo Amore, affinché quel figlio,
lontano, non abbia a farsi del male.
Il
peccato del giovane non fu di aver chiesto la sua parte di
eredità, e neppure di averla poi dissipata, lontano da casa,
vivendo in modo dissoluto; il peccato era in
quell’errata convinzione, ben radicata nell’anima, che la
casa del Padre fosse una prigione e la presenza di Lui
qualcosa di insopportabile, mortificante, e fortemente
limitante per la libertà; ed ecco la via della lontananza,
vista come via di libertà piena e di vera autorealizzazione.
È questo il peccato del figlio minore: la diffidenza nei
confronti del Padre, e la pretesa di costruire da solo la
propria vita. Ed è anche il nostro peccato, perché nella
parabola ci siamo dentro tutti noi, quando pensiamo e
vogliamo essere arbitri assoluti di noi stessi; quando
crediamo di essere noi, creature umane limitate e fallibili,
i padroni della vita e della storia.
Ma la
parabola del “figlio prodigo”, oltre che la storia del
nostro peccato, è la storia di un ritorno, è la felice
esperienza di un cammino, che riconduce a casa, è la storia
tenerissima di quella immagine del Padre, ritrovata, in
fondo al cuore e poco conta la situazione in cui si è
precipitati. È il ricordo di una felicità perduta: «Quanti
salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui
muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò:
“Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono
più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno
dei tuoi salariati!”». Ma il desiderio del figlio era
anche desiderio del Padre, che come lui soffriva non tanto
dell’arroganza con cui aveva chiesto quanto ancora non gli
spettava e neppure per il cattivo uso di quei beni non suoi,
ma soffriva della lontananza di quel suo ragazzo e del
disagio in cui viveva. E in questo desiderio il Padre
veglia, attende, spia l’orizzonte, nella speranza simile ad
una certezza, che il ragazzo tornerà a Lui; un desiderio,
che Padre e figlio hanno in comune e che si fa punto
d’incontro: una forza che consentirà al figlio di mettersi
sulla via del ritorno.
“Quando
era ancora lontano suo padre lo vide, ebbe compassione, gli
corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”; una
storia tenera e intensa nella quale possiamo leggere la
storia di ogni conversione, la storia di ogni nostro ritorno
a Dio, quel ritorno sollecitato dall’Amore del Padre che
desidera aver con sé tutti i figli, senza che alcuno si
perda.
La
conversione non è un percorso facile, anzi, è impossibile
che l’uomo ritorni a Dio con le sue sole forze interiori;
del resto, senza che noi lo desideriamo, Dio non ci converte
a sé: perciò è essenziale che il nostro desiderio e il
desiderio di Dio si incontrino; poi l’amore del Padre farà
il resto.
Guai a
noi, però, se assomigliamo al figlio maggiore, a quel figlio
“perfetto”, il figlio che non aveva mai abbandonato la casa
del Padre ma aveva un animo altezzoso e impietoso; egli era
formalmente rispettoso, non aveva mai trasgredito un comando
del Padre, non aveva approfittato delle sue ricchezze, ma
purtroppo non aveva neppure conosciuto chi fosse realmente
suo Padre; non aveva mai colto la forza del suo Amore, la
grandezza e la gratuità di quell’Amore che, perdonando, fa
nuova ogni creatura. Quel figlio era solo apparentemente
giusto, in realtà era schiavo dell’amarezza che lo aveva
reso incapace di amare e di gioire della gioia del Padre e
di quel fratello ritrovato, tornato in vita e salvo.
La
conversione opera anche il miracolo della gioia, la gioia
grande di chi, col perdono, fa esperienza dell’Amore di Dio,
il Padre tenero e sollecito che è vicino ad ogni uomo,
pronto a risollevarlo da ogni caduta.
Nel
cammino della Quaresima abbiamo percorso, ormai, un lungo
tratto ed ora possiamo, anche, voltarci indietro e ripensare
a quel monito del Mercoledì delle Ceneri, quando la Chiesa
ci ha esortato a non dimenticare la nostra reale condizione:
“ricordati uomo, che sei polvere, e tornerai polvere..”;
sappiamo, però che su questo nostro esser polvere, anche la
più spregevole, che si nutre “delle carrube dei porci”,
si posa, carico di luce e di Amore, lo sguardo di Dio. Ed è
questo sguardo, il solo capace di bruciare tutte le
distanze, e che ci dà la forza di rimetterci in piedi e
riavviarci verso casa dove l'Amore paziente del Padre ci
aspetta per buttarci le braccia al collo e gioire di noi,
per riabilitarci, e ricoprire di quel "vestito più bello",
che è il segno della nostra dignità ritrovata.
“Rallegrati,
Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi.
Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza:
saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione”