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Riflessione sulle Letture Festive

a cura del Diacono Gaetano Bellino

 

Anno Liturgico 2009-2010 (Anno C)

 

 

14 Marzo 2010 - IV Domenica di Quaresima (Anno C)

Pubblicato: lunedì 8 marzo 2010

Se vuoi, prima di leggere la riflessione, clicca qui per le letture dal Lezionario

Questa domenica è chiamata “laetare”, ossia domenica della letizia, dalla prima parola dell’antifona d’ingresso: “Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione”. Si vuole, in qualche modo, interrompere il rigore del tempo quaresimale. Il colore viola, segno proprio di un tempo di penitenza, cede il passo al rosa, per la letizia che viene donata oggi al nostro cuore, quasi a farci pregustare la gioia della Pasqua.

Il vangelo di questa Domenica inizia dicendo che «Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo:Costui riceve i peccatori e mangia con loro”». La mania di considerare non noi ma, sempre, gli altri peccatori, si annida quotidianamente nel nostro cuore. La scelta di Gesù di sedersi con i peccatori è una chiara indicazione che a quella mensa non possiamo mancare e non si può delegare nessuno. Non solo: la voglia di vedere sedere o mettere a sedere qualcun altro in quella tavola è di natura diabolica. Coloro che sono in piedi e lo ascoltano dovrebbero essere i primi commensali al tavolo di Gesù chiedendo quel cibo e quella bevanda che li nutra nel profondo. Ma se si sceglie di stare in piedi e puntare il dito si avrà sempre lo stomaco vuoto e la rabbia nel cuore. Al contrario, riconoscere di avere bisogno della misericordia di Dio è la nostra salvezza, perché è chiedendo che ci si salva, è nel tendere la mano che si aprono i nostri occhi e si lasciano cadere le cataratte dell’autosufficienza.

Questa scena che è di scandalo per i benpensanti, per noi è Vangelo, «buona notizia»: è la “lieta notizia” che Gesù “frequenta” e cerca i peccatori. Del resto, la liturgia domenicale è il convito di Gesù con noi peccatori; il banchetto in cui ci fa mangiare il suo Pane e fa bere il suo Calice. La liturgia della domenica realizza ogni volta questi tre versetti del vangelo di Luca. Solo chi si sente “a posto” non capisce questa pagina evangelica e, tutto sommato, non riesce neppure a gustare la gioia che da essa prorompe. Solo chi crede di non avere bisogno di essere accolto, perdonato e abbracciato ragiona allo stesso modo dei farisei e degli scribi.

A questo atteggiamento Gesù risponde raccontando una parabola, la parabola delle parabole, l’essenza di cosa significa cristianesimo ed essere  cristiani, l’arrivo e la partenza di ogni cammino personale e comunitario: la parabola del figlio prodigo, che si incontra con la misericordia del Padre. Ci sono tanti che non conoscono il grande Cuore del Padre e vedono in Lui un implacabile giudice pronto a colpirci, come facciamo tra di noi. Una terribile e falsa conoscenza di Dio che suona come un’offesa al suo Cuore.

Fa impressione come il figlio minore mostri quasi un fastidio a restare con il padre, certo di trovare “fuori” una felicità maggiore, superiore a quella della casa in cui vive, e senza neppure chiedersi se, come figlio, possiede qualcosa di veramente suo, in quanto tutto ha ricevuto dal padre, chiede sfrontatamente la sua parte: “Dammi la parte che mi spetta”.

Ricorda tanto Adamo ed Eva che, non contenti dell’Eden, cedono alla tentazione di una vita diversa, anzi in competizione con quella di Chi li aveva creati, illudendosi che altro è essere “creature”, altro è essere “Creatore”. La creatura dipende totalmente dal Creatore e tutto quello che ha è un dono gratuito avuto per amare e rendere gloria. Il Padre, che ha fatto dono al figlio della libertà, non fa obbiezioni: gli dona la sua parte e lo lascia andare.

Sembra il racconto di tanti figli o di tanti sposi, che si lasciano in cerca di una avventura diversa. In realtà è la vicenda del popolo eletto, è la storia dell’umanità intera dal primo uomo, Adamo, allontanatosi da Dio ad ognuno di noi, dal momento che, tutti abbiamo conosciuto la tentazione di andar lontano da casa e, in qualche modo, ne abbiamo anche fatto l’esperienza.

È come un fatto fisiologico e il Padre lo sa; sa che c’è un momento dell’esistenza in cui si tenta di crescere ed affermarsi, in assoluta autonomia, incuranti dell’imprevisto cui si va incontro. Il figlio che si allontana non sa di sbagliare, non prevede che andrà incontro a qualcosa che gli si ritorcerà contro; egli va, inseguendo un’illusione di libertà e di felicità; crede sia un suo inalienabile diritto e, in quel momento, nessuno lo ferma, né potrebbe farlo. È il mistero grande del dono della libertà, che Dio ha fatto all’ uomo, un dono, che Egli stesso rispetta, pur vigilando, con la potenza infinita del suo Amore, affinché quel figlio, lontano, non abbia a farsi del male.

Il peccato del giovane non fu di aver chiesto la sua parte di eredità, e neppure di averla poi dissipata, lontano da casa, vivendo in modo dissoluto; il peccato era in quell’errata convinzione, ben radicata nell’anima, che la casa del Padre fosse una prigione e la presenza di Lui qualcosa di insopportabile, mortificante, e fortemente limitante per la libertà; ed ecco la via della lontananza, vista come via di libertà piena e di vera autorealizzazione. È questo il peccato del figlio minore: la diffidenza nei confronti del Padre, e la pretesa di costruire da solo la propria vita. Ed è anche il nostro peccato, perché nella parabola ci siamo dentro tutti noi, quando pensiamo e vogliamo essere arbitri assoluti di noi stessi; quando crediamo di essere noi, creature umane limitate e fallibili, i padroni della vita e della storia.

Ma la parabola del “figlio prodigo”, oltre che la storia del nostro peccato, è la storia di un ritorno, è la felice esperienza di un cammino, che riconduce a casa, è la storia tenerissima di quella immagine del Padre, ritrovata, in fondo al cuore e poco conta la situazione in cui si è precipitati. È  il ricordo di una felicità perduta: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati!”». Ma il desiderio del figlio era anche desiderio del Padre, che come lui soffriva non tanto dell’arroganza con cui aveva chiesto quanto ancora non gli spettava e neppure per il cattivo uso di quei beni non suoi, ma soffriva della lontananza di quel suo ragazzo e del disagio in cui viveva. E in questo desiderio il Padre veglia, attende, spia l’orizzonte, nella speranza simile ad una certezza, che il ragazzo tornerà a Lui; un desiderio, che Padre e figlio hanno in comune e che si fa punto d’incontro: una forza che consentirà al figlio di mettersi sulla via del ritorno.

Quando era ancora lontano suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”; una storia tenera e intensa nella quale possiamo leggere la storia di ogni conversione, la storia di ogni nostro ritorno a Dio, quel ritorno sollecitato dall’Amore del Padre che desidera aver con sé tutti i figli, senza che alcuno si perda.

La conversione non è un percorso facile, anzi, è impossibile che l’uomo ritorni a Dio con le sue sole forze interiori; del resto, senza che noi lo desideriamo, Dio non ci converte a sé: perciò è essenziale che il nostro desiderio e il desiderio di Dio si incontrino; poi l’amore del Padre farà il resto.

Guai a noi, però, se assomigliamo al figlio maggiore, a quel figlio “perfetto”, il figlio che non aveva mai abbandonato la casa del Padre ma aveva un animo altezzoso e impietoso; egli era formalmente rispettoso, non aveva mai trasgredito un comando del Padre, non aveva approfittato delle sue ricchezze, ma purtroppo non aveva neppure conosciuto chi fosse realmente suo Padre; non aveva mai colto la forza del suo Amore, la grandezza e la gratuità di quell’Amore che, perdonando, fa nuova ogni creatura. Quel figlio era solo apparentemente giusto, in realtà era schiavo dell’amarezza che lo aveva reso incapace di amare e di gioire della gioia del Padre e di quel fratello ritrovato, tornato in vita e salvo.

La conversione opera anche il miracolo della gioia, la gioia grande di chi, col perdono, fa esperienza dell’Amore di Dio, il Padre tenero e sollecito che è vicino ad ogni uomo, pronto a risollevarlo da ogni caduta.

Nel cammino della Quaresima abbiamo percorso, ormai, un lungo tratto ed ora possiamo, anche, voltarci indietro e ripensare a quel monito del Mercoledì delle Ceneri, quando la Chiesa ci ha esortato a non dimenticare la nostra reale condizione: “ricordati uomo, che sei polvere, e tornerai polvere..”; sappiamo, però che su questo nostro esser polvere, anche la più spregevole, che si nutre “delle carrube  dei porci”, si posa, carico di luce e di Amore, lo sguardo di Dio. Ed è questo sguardo, il solo capace di bruciare tutte le distanze, e che ci dà la forza di rimetterci in piedi e riavviarci verso casa dove l'Amore paziente del Padre ci aspetta per buttarci le braccia al collo e gioire di noi, per riabilitarci, e ricoprire di quel "vestito più bello", che è il segno della nostra dignità ritrovata.

Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi.

Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza:

saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione

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Ultimo aggiornamento: 08-03-10