La narrazione dell’Ascensione
si sviluppa in appena tre versetti, eppure questo episodio
rappresenta un momento cruciale per la vita di Gesù e per la
storia dei discepoli. Luca lo narra due volte: la prima per
chiudere il suo Vangelo e la seconda per aprire il libro
degli Atti degli Apostoli (I Lettura). L’evangelista sembra
voler dire che l’Ascensione, se da una parte indica la
chiusura della vita pubblica di Gesù, dall’altra vuol
significare una sua presenza più profonda nella vita dei
discepoli tanto da essere l’inizio, quasi il fondamento, di
tutta la storia seguente della Chiesa. “Salire al cielo”
vuol dire andare più in alto della vita degli uomini, sino a
giungere alla presenza di Dio; mistero, questo, che viene
descritto nella Lettera agli Ebrei (II Lettura): “Cristo
non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, ma nel
cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di
Dio in nostro favore”.
Il brano del Vangelo si
conclude con un’esplosione di gioia: “Ed essi si
prostrarono davanti a Lui; poi tornarono a Gerusalemme con
grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio”.
Ormai gli occhi degli Undici sono capaci di capire il
Mistero e ne sono interiormente trasformati; ora non è più
necessario nascondersi e non c’è più spazio per la paura:
essi si sentono rassicurati nella fede e pronti a portare
avanti il mandato che il Maestro ha loro affidato:
“...avrete forza dallo Spirito Santo, che scenderà su di voi
e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la
Samaria, e fino agli estremi confini della terra...”
L’ascesa al cielo di nostro
Signore non vuol dire che Gesù si sia allontanato dai
discepoli. Significa piuttosto che egli ha raggiunto il
Padre e che si è assiso accanto a lui nella Gloria.
Ascendere, perciò, vuol dire entrare in un rapporto
definitivo con Dio e avere una presenza forte e diffusa:
come il cielo copre tutta la terra, così il Signore,
ascendendo al cielo, comprende e avvolge tutti. Non si è
allontanato, si è avvicinato in maniera più profonda e
coinvolgente. Se così non fosse non si comprenderebbe la
gioia dei discepoli: “… poi tornarono a Gerusalemme con
grande gioia…”.
Quel giorno i discepoli hanno
sperimentato che il Signore era ormai, definitivamente,
accanto a loro, con la sua Parola e il suo Spirito; una
vicinanza certo più misteriosa ma ancora più reale di prima.
Da quel momento in poi la presenza di Gesù sarebbe stata
ancor più larga nello spazio e nel tempo: per sempre avrebbe
accompagnato i discepoli, dovunque e comunque. Di qui il
motivo della grande gioia. Nessuno al mondo avrebbe ormai
potuto allontanare Gesù dalla loro vita.
Con l’Ascensione, se da una
parte si conclude la vita e la missione di Gesù sulla terra,
dall’altra inizia, per volere di Gesù, la missione degli
apostoli, dei discepoli, della Chiesa, chiamati a continuare
l’opera di Gesù, a portare ovunque nel mondo e lungo la
storia, il Vangelo e la Grazia di Salvezza del Signore.
Anche noi, chiamati a vivere
la missione della Chiesa, a continuare l’annuncio e l’opera
di Gesù, invochiamo lo Spirito Santo perché ci rivesta di
potenza, ci cambi il cuore, ci dia la sua forza. Così
vogliamo vivere questi prossimi giorni di preparazione alla
Pentecoste, con questo impegno di profonda e continua
preghiera di implorazione dello Spirito Santo, con questa
consapevolezza della missione di Cristo, messa nelle nostre
mani, da svolgere con fervore, con fedeltà, con
testimonianza, col martirio (sarebbe una grande cosa anche
solo quello dell’orgoglio).
Dice S. Agostino: “Oggi
nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con Lui salga
pure il nostro cuore”. E continua spiegando che come Cristo,
asceso al cielo, continua a vivere la sua vita e la sua
passione in noi, così noi possiamo, pur nella vita terrena,
già vivere spiritualmente uniti a Lui perché è il Capo di
quel suo corpo che è la Chiesa.
La gioia dei discepoli ora è
anche nostra, perché possiamo vivere quel che loro
sperimentarono. I due angeli possiamo paragonarli alle Sante
Scritture, all’Antico e al Nuovo Testamento ed il cielo allo
spazio sconfinato che occupa l’egoismo nel nostro cuore. Le
Scritture ci vengono incontro mentre stiamo con la testa a
fissare il “cielo del nostro egoismo, delle nostre
fantasie”. Non è questo il cielo che dobbiamo guardare: “Uomini
di Galilea, perché state a guardare il cielo?”. Potremmo
sentirci dire: “Uomini e donne di oggi, perché state a
guardare il vostro cielo?. Guardate a quello di Gesù che è
più largo, è ampio come il mondo e profondo come il cuore
degli uomini, avvolge il volto dei deboli, copre le terre
martoriate dalla guerra e dai disastri naturali, si stende
sul letto dei malati, copre le piazze o le strade dove
vivono i senza tetto …”. Questi e tanti altri sono i cieli
che gli angeli ci invitano a contemplare. Perché abbiamo
bisogno di cielo: di cielo che ci ispiri, di cielo in cui
immergerci per innalzarci, un cielo da cui essere attirati.
Ispirarsi al cielo serve per
vedere con più realismo e meno angoscia le cose della terra;
ispirarsi al cielo è sentirsi attirati da ciò che sta in
alto, è avere interesse per Dio. E questo non impedisce,
anzi ci permette di vivere pienamente la concretezza dei
problemi umani.
Così, il percorso compiuto da
Cristo è, ora, il nostro percorso, fatto di ascolto della
parola di Dio, di conoscenza attenta ed amorosa della Sua
volontà e, perciò, fatto anche di obbedienza e di servizio;
un servizio che Lui stesso ci ha consegnato, alla vigilia
della sua Passione, quando al termine di quell’ultima cena
di Pasqua, alzatosi da tavola e preso un catino d’acqua,
lavò i piedi ai suoi discepoli e poi disse loro:”Avete
capito ciò che vi ho fatto? Se dunque io che sono il Signore
e maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi
i piedi gli uni gli altri.” ( Gv.13,13-14)
È il servizio reciproco che
gli uomini devono rendersi per vivere ed operare in modo
conforme all’esempio del Maestro; il servizio è il segno
dell’amore dovuto a Dio, e si concretizza nell’amore per gli
altri uomini; un percorso non facile, perché amare comporta,
anche, fatica e dolore; ed è inevitabilmente, del resto, che
l’amore esiga un prezzo, il prezzo della donazione gratuita
di sé, a chiunque abbia bisogno di noi.
“Poi li condusse
fuori...e, alzate le mani, li benediceva”. L’ultima
immagine che rimane negli occhi di chi Lo ha visto per tre
anni, e non lo vedrà più, è una Benedizione. “E, mentre
li benediceva, fu portato verso il cielo”. Quella
benedizione è il suo testamento ultimo, raggiunge ciascuno
di noi, non è più terminata. Rimane tra cielo e terra, si
stende come una nube sulla storia intera, è tracciata sul
nostro male di vivere, discende sulle malattie e sulle
delusioni, sull’uomo caduto e sulla vittima, ad assicurare
che la vita è più forte delle sue ferite.
Il Signore ci ha lasciato una benedizione,
non un giudizio, non una condanna o un lamento o una
ingiunzione, ma una parola bella sul mondo, una parola di
stima, quasi di gratitudine.