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Riflessione sulle Letture Festive

a cura del Diacono Gaetano Bellino

 

Anno Liturgico 2009-2010 (Anno C)

 

 

16 Maggio 2010 - Ascensione del Signore (Anno C)

Pubblicato: Domenica 9 maggio  2010

Se vuoi, prima di leggere la riflessione, clicca qui per le letture dal Lezionario

La narrazione dell’Ascensione si sviluppa in appena tre versetti, eppure questo episodio rappresenta un momento cruciale per la vita di Gesù e per la storia dei discepoli. Luca lo narra due volte: la prima per chiudere il suo Vangelo e la seconda per aprire il libro degli Atti degli Apostoli (I Lettura). L’evangelista sembra voler dire che l’Ascensione, se da una parte indica la chiusura della vita pubblica di Gesù, dall’altra vuol significare una sua presenza più profonda nella vita dei discepoli tanto da essere l’inizio, quasi il fondamento, di tutta la storia seguente della Chiesa. “Salire al cielo” vuol dire andare più in alto della vita degli uomini, sino a giungere alla presenza di Dio; mistero, questo, che viene descritto nella Lettera agli Ebrei (II Lettura): “Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore”.

Il brano del Vangelo si conclude con un’esplosione di gioia: “Ed essi si prostrarono davanti a Lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio”. Ormai gli occhi degli Undici sono capaci di capire il Mistero e ne sono interiormente trasformati; ora non è più necessario nascondersi e non c’è più spazio per la paura: essi si sentono rassicurati nella fede e pronti a portare avanti il mandato che il Maestro ha loro affidato: “...avrete forza dallo Spirito Santo, che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino agli estremi confini della terra...

L’ascesa al cielo di nostro Signore non vuol dire che Gesù si sia allontanato dai discepoli. Significa piuttosto che egli ha raggiunto il Padre e che si è assiso accanto a lui nella Gloria. Ascendere, perciò, vuol dire entrare in un rapporto definitivo con Dio e avere una presenza forte e diffusa: come il cielo copre tutta la terra, così il Signore, ascendendo al cielo, comprende e avvolge tutti. Non si è allontanato, si è avvicinato in maniera più profonda e coinvolgente. Se così non fosse non si comprenderebbe la gioia dei discepoli: “… poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia…”.

Quel giorno i discepoli hanno sperimentato che il Signore era ormai, definitivamente, accanto a loro, con la sua Parola e il suo Spirito; una vicinanza certo più misteriosa ma ancora più reale di prima. Da quel momento in poi la presenza di Gesù sarebbe stata ancor più larga nello spazio e nel tempo: per sempre avrebbe accompagnato i discepoli, dovunque e comunque. Di qui il motivo della grande gioia. Nessuno al mondo avrebbe ormai potuto allontanare Gesù dalla loro vita.

Con l’Ascensione, se da una parte si conclude la vita e la missione di Gesù sulla terra, dall’altra inizia, per volere di Gesù, la missione degli apostoli, dei discepoli, della Chiesa, chiamati a continuare l’opera di Gesù, a portare ovunque nel mondo e lungo la storia, il Vangelo e la Grazia di Salvezza del Signore.

Anche noi, chiamati a vivere la missione della Chiesa, a continuare l’annuncio e l’opera di Gesù, invochiamo lo Spirito Santo perché ci rivesta di potenza, ci cambi il cuore, ci dia la sua forza. Così vogliamo vivere questi prossimi giorni di preparazione alla Pentecoste, con questo impegno di profonda e continua preghiera di implorazione dello Spirito Santo, con questa consapevolezza della missione di Cristo, messa nelle nostre mani, da svolgere con fervore, con fedeltà, con testimonianza, col martirio (sarebbe una grande cosa anche solo quello dell’orgoglio).

Dice S. Agostino: “Oggi nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con Lui salga pure il nostro cuore”. E continua spiegando che come Cristo, asceso al cielo, continua a vivere la sua vita e la sua passione in noi, così noi possiamo, pur nella vita terrena, già vivere spiritualmente uniti a Lui  perché è il Capo di quel suo corpo che è la Chiesa.

La gioia dei discepoli ora è anche nostra, perché possiamo vivere quel che loro sperimentarono. I due angeli possiamo paragonarli alle Sante Scritture, all’Antico e al Nuovo Testamento ed il cielo allo spazio sconfinato che occupa l’egoismo nel nostro cuore. Le Scritture ci vengono incontro mentre stiamo con la testa a fissare il “cielo del nostro egoismo, delle nostre fantasie”. Non è questo il cielo che dobbiamo guardare: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”. Potremmo sentirci dire: “Uomini e donne di oggi, perché state a guardare il vostro cielo?. Guardate a quello di Gesù che è più largo, è ampio come il mondo e profondo come il cuore degli uomini, avvolge il volto dei deboli, copre le terre martoriate dalla guerra e dai disastri naturali, si stende sul letto dei malati, copre le piazze o le strade dove vivono i senza tetto …”. Questi e tanti altri sono i cieli che gli angeli ci invitano a contemplare. Perché abbiamo bisogno di cielo: di cielo che ci ispiri, di cielo in cui immergerci per innalzarci, un cielo da cui essere attirati.

Ispirarsi al cielo serve per vedere con più realismo e meno angoscia le cose della terra; ispirarsi al cielo è sentirsi attirati da ciò che sta in alto, è avere interesse per Dio. E questo non impedisce, anzi ci permette di vivere pienamente la concretezza dei problemi umani.

Così, il percorso compiuto da Cristo è, ora, il nostro percorso, fatto di ascolto della parola di Dio, di conoscenza attenta ed amorosa della Sua volontà e, perciò, fatto anche di obbedienza e di servizio; un servizio che Lui stesso ci ha consegnato, alla vigilia della sua Passione, quando al termine di quell’ultima cena di Pasqua, alzatosi da tavola e preso un catino d’acqua, lavò i piedi ai suoi discepoli e poi disse loro:”Avete capito ciò che vi ho fatto? Se dunque io che sono il Signore e maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri.” ( Gv.13,13-14)

È il servizio reciproco che gli uomini devono rendersi per vivere ed operare in modo conforme all’esempio del Maestro; il servizio è il segno dell’amore dovuto a Dio, e si concretizza nell’amore per gli altri uomini; un percorso non facile, perché amare comporta, anche, fatica e dolore; ed è inevitabilmente, del resto, che l’amore esiga un prezzo, il prezzo della donazione gratuita di sé, a chiunque abbia bisogno di noi.

Poi li condusse fuori...e, alzate le mani, li benediceva”. L’ultima immagine che rimane negli occhi di chi Lo ha visto per tre anni, e non lo vedrà più, è una Benedizione. “E, mentre li benediceva, fu portato verso il cielo”. Quella benedizione è il suo testamento ultimo, raggiunge ciascuno di noi, non è più terminata. Rimane tra cielo e terra, si stende come una nube sulla storia intera, è tracciata sul nostro male di vivere, discende sulle malattie e sulle delusioni, sull’uomo caduto e sulla vittima, ad assicurare che la vita è più forte delle sue ferite.

Il Signore ci ha lasciato una benedizione, non un giudizio, non una condanna o un lamento o una ingiunzione, ma una parola bella sul mondo, una parola di stima, quasi di gratitudine. Perché si benedice chi ci ha fatto del bene; e anche se noi non abbiamo fatto nessun bene a Dio, Lui ci benedice. Non ne siamo degni, ma prendiamo lo stesso questa parola di fiducia, e teniamoci stretto questo atto di enorme speranza in noi.

«Nella sua ascensione, Gesù non è salito verso l’alto, è andato oltre, verso le cose a venire. Non al di là delle nubi, ma al di là delle forme. Siede alla destra di ciascuno di noi, è nel profondo del creato, nel rigore della pietra, nella musica delle costellazioni, nella luce dell’alba, nell’abbraccio degli amanti, in ogni rinuncia per un più grande amore» (G. Vannucci).

 

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