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Riflessione sulle Letture Festive

a cura del Diacono Gaetano Bellino

 

Anno Liturgico 2009-2010 (Anno C)

 

 

25 Aprile 2010 - IV Domenica di Pasqua (Anno C)

Pubblicato: domenica 18 aprirle  2010

Se vuoi, prima di leggere la riflessione, clicca qui per le letture dal Lezionario

In tutti e tre i cicli liturgici, la IV Domenica di Pasqua presenta un brano del Vangelo di Giovanni sul buon pastore. Dopo averci condotto, Domenica scorsa, tra i pescatori, il Vangelo ci conduce tra i pastori. Due categorie di uguale importanza nei vangeli: dall’una deriva il titolo di “pescatori di uomini”, dall’altra quello di “pastori di anime”, dato agli apostoli.

La liturgia di questa domenica propone alla nostra riflessione un brevissimo passo del discorso di Gesù contenuto nel capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, discorso in cui Cristo si definisce come il “buon pastore” di quelle pecore che il Padre stesso gli ha affidato; un discorso che, a prima vista, ha poca attinenza col mistero della Resurrezione che in queste domeniche celebriamo, ma che, in realtà è pienamente pasquale, per via di quelle parole: “Io do loro la vita eterna”, parole che indicano in che consiste la Resurrezione per ogni uomo che creda in Lui.

La vicenda di Antiochia, che ci ha proposto la I Lettura,  è un’ammonizione per i credenti e per la stessa comunità ecclesiale quando si sottolinea il proprio individualismo. Credere di conoscere già il Signore e di possederlo è contraddire il Vangelo e, in fondo, bestemmiarlo. Il Vangelo richiede un ascolto continuo, come dice Gesù: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Essere fedeli al Signore vuol dire ascoltare la sua voce e seguirlo ogni giorno, ovunque Egli ci conduca. È l’esatto contrario dello stare seduti pigramente e orgogliosamente nella sinagoga di Antiochia. A chi lo ascolta e lo segue (l’unico modo per seguirlo è ascoltarlo mentre parla e cammina per le vie del mondo) promette la vita eterna: nessuno dei suoi andrà perduto, dice Gesù. E aggiunge: “nessuno le rapirà dalla mia mano”.  Nessuno: “né angeli né uomini, né vita né morte, né presente né futuro, nulla potrà mai separarci dall’amore di Cristo” (Rom 8,38). La forza e la consolazione di questa parola assoluta: «nessuno», subito raddoppiata: «ti rapirà mai» sono date da un verbo non al presente, ma al futuro a indicare un’intera storia, lunga quanto il tempo di Dio. L’uomo è per Dio una passione in grado di attraversare l’eternità.

«Nessuno mai, dalla mia mano»: mani che hanno dispiegato i cieli e gettato le fondamenta della terra, mani di vasaio sull’argilla dell’Eden, mani di creatore su Adamo addormentato da cui nasce Eva; mani inchiodate alla croce per un abbraccio che non può più terminare. Nessuno ci separerà da queste mani: sono parole pronunciate per darci coraggio. Come passeri abbiamo il nido nella sua mano, come bambini ci aggrappiamo forte a quella mano che non ci lascerà cadere, come crocifissi ripetiamo: nelle tue mani affido la mia vita.

Ogni uomo, dunque, è nelle mani di Dio, quelle mani che “lo hanno fatto e plasmato”, come canta il Salmista ( sl.118), quelle mani forti e sicure che guidano e proteggono, quelle mani pronte ad accogliere anche i figli che si allontanano e ritornano pentiti; quelle mani tenere, come quelle di una madre, che accarezzano e confortano, che, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse, asciugheranno ogni lacrima quando, superato il tempo, saremo davanti a Dio.

Le mani di Dio sono le mani del Padre, ricco di misericordia che, nella pienezza dell’ Amore, ha inviato il suo Figlio, fattosi uomo e a Lui ci ha consegnati per essere salvati.

Scrive Paolo: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo...in Lui ci ha scelti, prima della creazione del mondo, per trovarci al suo cospetto santi e perfetti nell’amore...” ( Ef...1,3-4); da sempre dunque, ogni uomo, è presente nel progetto di Dio, quasi fosse già nelle sue mani, al sicuro, fino a quando non voglia sfuggirgli ed andare per altre vie. Tuttavia, anche quando ciò accade, lo sguardo del Padre segue il figlio che va lontano e il suo amore, pur senza violarne la libertà, ne sollecita il ritorno. È la parabola della pecora che, allontanatasi dal gregge, vaga, incauta, verso il pericolo; ma, per recuperarla, Dio ha mandato sui suoi passi, Gesù, il “Pastore grande delle pecore”, e saranno le mani del Redentore, ad accogliere chiunque si è smarrito.

Le mani del Cristo, che è passato tra gli uomini beneficandoli, sono le mani che hanno risanato ciechi, muti e zoppi, mani che hanno consolato e hanno richiamato in vita i morti; mani che hanno benedetto e accarezzato e che si son lasciate inchiodare sulla Croce; perché sono le uniche mani, tenute aperte dall’amore, che sempre si dà, sino alla fine.

Le mani di Cristo sono le mani dell’unico Pastore che offre la vita per quelle pecore, che riconoscono la sua voce, perché avvertono l’amore che Egli nutre per loro.

Le mie pecore ascoltano la mia voce ...”; queste sono le parole di Gesù, che ancora una volta ci parla di ascolto; un verbo importante, nel linguaggio scritturistico, perché è sinonimo di docilità, di fiducia, di un cuore aperto a Dio; atteggiamenti, questi, che si traducono, poi, in scelte di vita conformi alla Parola accolta.

Ci esorta il Salmista: “se oggi, ascoltate la Sua voce non indurite il cuore...” (sl 94); un cuore capace di ascolto e di accoglimento della Parola è, anche, un cuore capace di riconoscere, e di amare, in altre parole, di obbedire e di seguire.

In molti dialetti, come il nostro, il verbo ubbidire non esiste ed è sostituito dal verbo ascoltare. Quante volte il lamento dei genitori ripete: quel figlio non ascolta; quel ragazzo ormai non ascolta più nessuno. E intendono dire: non ubbidisce più a nessuno. È lo stesso lamento di Dio che riempie la Bibbia: “ascolta, Israele!”; ascoltare significa ubbidire. L’ascolto è il nostro primo lavoro, il primo servizio da rendere a Dio e al prossimo, il primo modo per dire all’altro che esiste, che è importante per me. Ascoltare è amare.

Dice il Signore: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”; c’è un legame di conoscenza reciproca, tra il pastore e il gregge, tra Cristo e quanti lo seguono, e questa conoscenza è un rapporto di comunione, nel quale il Figlio fa dono della vita eterna: “Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute”: così recita il passo del Vangelo.

Il rapporto pastore-pecore suggerisce l’idea della guida di un gruppo che si è disperso, oppure che non trova orientamento e non sa dove andare. Le pecore infatti vanno guidate e indirizzate verso un cammino stabile e costante, perché se si lasciano sole, anche un momento, possono camminare per loro conto e sparpagliarsi ciascuna per conto proprio con terribili conseguenze per l’intero gregge e per le singole bestie. L’analogia fatta con gli uomini calza a pennello: alla pari delle pecore anche noi abbiamo bisogno di un orientamento e di una guida che ci conduca per un itinerario unico e immutabile atto a definire la nostra realizzazione e, se prestiamo attenzione, avviene sempre che dove non c’è orientamento subentra la dispersione e la desolazione come quando non si ha un capo o questi è poco funzionale o, addirittura, quando non ci si sottomette alla guida di una sola autorità.

Ecco perché Gesù, Buon Pastore aveva detto a Pietro: “Pasci la mie pecorelle”; voleva che esse, oltre al pastore divino Figlio di Dio avessero un riferimento umano, ossia un pastore universale visibile che guidasse la comunità ecclesiale nel tempo interpretando e realizzando la volontà di Dio. Pietro stesso fu istituito pastore vicario a guida della Chiesa e tuttora questa guida spirituale visibile sussiste nel Pontefice, successore del primo apostolo e Vicario in terra di Gesù Cristo, costituito a capo di tutto il popolo di Dio e che tutto il popolo deve amare onorare e seguire.

Pastore indiscusso del gregge dell’umanità dispersa è comunque il solo Signore Gesù Cristo che si propone all’umanità come guida efficace e onnipresente di quelle che vengono definite le pecore, ossia gli uomini che vagano nel disorientamento brancolando nel buio delle inquietudini e delle incertezze; a differenza delle pecore l’uomo non è ingenuo e irrazionale, ma dispone di facoltà di elezione e autorevolezza nella gestione della propria vita, vale a dire che è libero di impostare il proprio destino liberamente e senza soccombere a condizionamento alcuno forte della propria autonomia e padronanza nei confronti del mondo e della vita.

Ma se abbiamo incontrato il Cristo e ci siamo lasciati avvolgere dal suo Amore non potremo fare a meno di seguirlo per quella stessa via che Lui ha percorso, così come le pecore, alla voce del pastore che le chiama, lo seguono. Lo sappiamo, la sequela di Cristo è ardua perché è fatta anche di dolore e di Croce, ma è l’unica che garantisca la salvezza, l’unica per la quale entriamo in comunione con la SS Trinità, accogliendo in noi il dono della vita eterna, una vita che già possiamo sperimentare nel tempo per la fede, fin da ora; una vita che siamo chiamati e inviati ad annunciare a quanti ancora non la conoscono o che, nel dubbio, son tentati di ignorare; dobbiamo annunciarla perché quella moltitudine immensa, di cui parla Giovanni, giunga alla sua pienezza, e si adempia la volontà del Padre che Paolo esprime con queste parole: “Così ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”, ed ogni battezzato è, con Cristo, portatore di salvezza.

 

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