In tutti e tre i cicli liturgici, la IV Domenica di Pasqua
presenta un brano del Vangelo di Giovanni sul buon pastore.
Dopo averci condotto, Domenica scorsa, tra i pescatori, il
Vangelo ci conduce tra i pastori. Due categorie di uguale
importanza nei vangeli: dall’una deriva il titolo di “pescatori
di uomini”, dall’altra quello di “pastori di anime”,
dato agli apostoli.
La liturgia di questa domenica propone alla nostra
riflessione un brevissimo passo del discorso di Gesù
contenuto nel capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, discorso
in cui Cristo si definisce come il “buon pastore” di quelle
pecore che il Padre stesso gli ha affidato; un discorso che,
a prima vista, ha poca attinenza col mistero della
Resurrezione che in queste domeniche celebriamo, ma che, in
realtà è pienamente pasquale, per via di quelle parole: “Io
do loro la vita eterna”, parole che indicano in che
consiste la Resurrezione per ogni uomo che creda in Lui.
La vicenda di Antiochia, che ci ha proposto la I Lettura, è
un’ammonizione per i credenti e per la stessa comunità
ecclesiale quando si sottolinea il proprio individualismo.
Credere di conoscere già il Signore e di possederlo è
contraddire il Vangelo e, in fondo, bestemmiarlo. Il Vangelo
richiede un ascolto continuo, come dice Gesù: “Le mie
pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi
seguono”. Essere fedeli al Signore vuol dire ascoltare
la sua voce e seguirlo ogni giorno, ovunque Egli ci conduca.
È l’esatto contrario dello stare seduti pigramente e
orgogliosamente nella sinagoga di Antiochia. A chi lo
ascolta e lo segue (l’unico modo per seguirlo è ascoltarlo
mentre parla e cammina per le vie del mondo) promette la
vita eterna: nessuno dei suoi andrà perduto, dice Gesù. E
aggiunge: “nessuno le rapirà dalla mia mano”.
Nessuno: “né angeli né uomini, né vita né morte, né
presente né futuro, nulla potrà mai separarci dall’amore di
Cristo” (Rom 8,38). La forza e la consolazione di questa
parola assoluta: «nessuno», subito raddoppiata: «ti
rapirà mai» sono date da un verbo non al presente, ma
al futuro a indicare un’intera storia, lunga quanto il tempo
di Dio. L’uomo è per Dio una passione in grado di
attraversare l’eternità.
«Nessuno
mai, dalla mia mano»: mani che hanno dispiegato i cieli
e gettato le fondamenta della terra, mani di vasaio
sull’argilla dell’Eden, mani di creatore su Adamo
addormentato da cui nasce Eva; mani inchiodate alla croce
per un abbraccio che non può più terminare. Nessuno ci
separerà da queste mani: sono parole pronunciate per darci
coraggio. Come passeri abbiamo il nido nella sua mano, come
bambini ci aggrappiamo forte a quella mano che non ci
lascerà cadere, come crocifissi ripetiamo: nelle tue mani
affido la mia vita.
Ogni uomo, dunque, è nelle mani di Dio, quelle mani che “lo
hanno fatto e plasmato”, come canta il Salmista ( sl.118),
quelle mani forti e sicure che guidano e proteggono, quelle
mani pronte ad accogliere anche i figli che si allontanano e
ritornano pentiti; quelle mani tenere, come quelle di una
madre, che accarezzano e confortano, che, come leggiamo nel
libro dell’Apocalisse, asciugheranno ogni lacrima quando,
superato il tempo, saremo davanti a Dio.
Le mani di Dio sono le mani del Padre, ricco di misericordia
che, nella pienezza dell’ Amore, ha inviato il suo Figlio,
fattosi uomo e a Lui ci ha consegnati per essere salvati.
Scrive Paolo: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore
nostro Gesù Cristo...in Lui ci ha scelti, prima della
creazione del mondo, per trovarci al suo cospetto santi e
perfetti nell’amore...” ( Ef...1,3-4); da sempre dunque,
ogni uomo, è presente nel progetto di Dio, quasi fosse già
nelle sue mani, al sicuro, fino a quando non voglia
sfuggirgli ed andare per altre vie. Tuttavia, anche quando
ciò accade, lo sguardo del Padre segue il figlio che va
lontano e il suo amore, pur senza violarne la libertà, ne
sollecita il ritorno. È la parabola della pecora che,
allontanatasi dal gregge, vaga, incauta, verso il pericolo;
ma, per recuperarla, Dio ha mandato sui suoi passi, Gesù, il
“Pastore grande delle pecore”, e saranno le mani del
Redentore, ad accogliere chiunque si è smarrito.
Le mani del Cristo, che è passato tra gli uomini
beneficandoli, sono le mani che hanno risanato ciechi, muti
e zoppi, mani che hanno consolato e hanno richiamato in vita
i morti; mani che hanno benedetto e accarezzato e che si son
lasciate inchiodare sulla Croce; perché sono le uniche mani,
tenute aperte dall’amore, che sempre si dà, sino alla fine.
Le mani di Cristo sono le mani dell’unico Pastore che offre
la vita per quelle pecore, che riconoscono la sua voce,
perché avvertono l’amore che Egli nutre per loro.
“Le
mie pecore ascoltano la mia voce ...”; queste sono le
parole di Gesù, che ancora una volta ci parla di ascolto; un
verbo importante, nel linguaggio scritturistico, perché è
sinonimo di docilità, di fiducia, di un cuore aperto a Dio;
atteggiamenti, questi, che si traducono, poi, in scelte di
vita conformi alla Parola accolta.
Ci esorta il Salmista: “se oggi, ascoltate la Sua voce
non indurite il cuore...” (sl 94); un cuore capace di
ascolto e di accoglimento della Parola è, anche, un cuore
capace di riconoscere, e di amare, in altre parole, di
obbedire e di seguire.
In molti dialetti, come il nostro, il verbo ubbidire non
esiste ed è sostituito dal verbo ascoltare. Quante volte il
lamento dei genitori ripete: quel figlio non ascolta; quel
ragazzo ormai non ascolta più nessuno. E intendono dire: non
ubbidisce più a nessuno. È lo stesso lamento di Dio che
riempie la Bibbia: “ascolta, Israele!”; ascoltare
significa ubbidire. L’ascolto è il nostro primo lavoro, il
primo servizio da rendere a Dio e al prossimo, il primo modo
per dire all’altro che esiste, che è importante per me.
Ascoltare è amare.
Dice il Signore: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e
io le conosco ed esse mi seguono”; c’è un legame di
conoscenza reciproca, tra il pastore e il gregge, tra Cristo
e quanti lo seguono, e questa conoscenza è un rapporto di
comunione, nel quale il Figlio fa dono della vita eterna: “Io
do loro la vita eterna e non andranno mai perdute”: così
recita il passo del Vangelo.
Il rapporto pastore-pecore suggerisce l’idea della guida di
un gruppo che si è disperso, oppure che non trova
orientamento e non sa dove andare. Le pecore infatti vanno
guidate e indirizzate verso un cammino stabile e costante,
perché se si lasciano sole, anche un momento, possono
camminare per loro conto e sparpagliarsi ciascuna per conto
proprio con terribili conseguenze per l’intero gregge e per
le singole bestie. L’analogia fatta con gli uomini calza a
pennello: alla pari delle pecore anche noi abbiamo bisogno
di un orientamento e di una guida che ci conduca per un
itinerario unico e immutabile atto a definire la nostra
realizzazione e, se prestiamo attenzione, avviene sempre che
dove non c’è orientamento subentra la dispersione e la
desolazione come quando non si ha un capo o questi è poco
funzionale o, addirittura, quando non ci si sottomette alla
guida di una sola autorità.
Ecco perché Gesù, Buon Pastore aveva detto a Pietro: “Pasci
la mie pecorelle”; voleva che esse, oltre al pastore
divino Figlio di Dio avessero un riferimento umano, ossia un
pastore universale visibile che guidasse la comunità
ecclesiale nel tempo interpretando e realizzando la volontà
di Dio. Pietro stesso fu istituito pastore vicario a guida
della Chiesa e tuttora questa guida spirituale visibile
sussiste nel Pontefice, successore del primo apostolo e
Vicario in terra di Gesù Cristo, costituito a capo di tutto
il popolo di Dio e che tutto il popolo deve amare onorare e
seguire.
Pastore indiscusso del gregge dell’umanità dispersa è
comunque il solo Signore Gesù Cristo che si propone
all’umanità come guida efficace e onnipresente di quelle che
vengono definite le pecore, ossia gli uomini che vagano nel
disorientamento brancolando nel buio delle inquietudini e
delle incertezze; a differenza delle pecore l’uomo non è
ingenuo e irrazionale, ma dispone di facoltà di elezione e
autorevolezza nella gestione della propria vita, vale a dire
che è libero di impostare il proprio destino liberamente e
senza soccombere a condizionamento alcuno forte della
propria autonomia e padronanza nei confronti del mondo e
della vita.
Ma se abbiamo incontrato il Cristo e ci siamo lasciati
avvolgere dal suo Amore non potremo fare a meno di seguirlo
per quella stessa via che Lui ha percorso, così come le
pecore, alla voce del pastore che le chiama, lo seguono. Lo
sappiamo, la sequela di Cristo è ardua perché è fatta anche
di dolore e di Croce, ma è l’unica che garantisca la
salvezza, l’unica per la quale entriamo in comunione con la
SS Trinità, accogliendo in noi il dono della vita eterna,
una vita che già possiamo sperimentare nel tempo per la
fede, fin da ora; una vita che siamo chiamati e inviati ad
annunciare a quanti ancora non la conoscono o che, nel
dubbio, son tentati di ignorare; dobbiamo annunciarla perché
quella moltitudine immensa, di cui parla Giovanni,
giunga alla sua pienezza, e si adempia la volontà del Padre
che Paolo esprime con queste parole: “Così ci ha ordinato
il Signore: Io ti ho posto per essere luce delle genti,
perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”,
ed ogni battezzato è, con Cristo, portatore di salvezza.