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Riflessione sulle Letture Festive

a cura del Diacono Gaetano Bellino

 

Anno Liturgico 2009-2010 (Anno C)

 

 

28 Febbraio 2010 - II Domenica di Quaresima (Anno C)

Pubblicato: martedì 23 febbraio 2010

Se vuoi, prima di leggere la riflessione, clicca qui per le letture dal Lezionario

In questa II Domenica di Quaresima il racconto della trasfigurazione, con il mistero che lo circonda, ci invita a riflettere sul progetto d’Amore di Dio e sul modo di collaborarvi da parte nostra. Dio ha concepito per l’uomo un meraviglioso progetto di amore: ha pensato di farci somiglianti al Figlio suo, per poter dire a ciascuno di noi come ha detto a Lui “Questi è il mio figlio diletto, nel quale ho posto tutto il mio amore”.

Questa collaborazione consisterà prima di tutto nel rimuovere, con la forza e il sostegno dello Spirito Santo, tutto ciò che potrebbe essere di ostacolo all’irrompere della luce e dell’amore di Dio nell’intimo del nostro essere; consisterà nello spogliarci, come dice san Paolo, dell’uomo vecchio, per rivestirci dell’uomo nuovo, in Cristo Gesù.

La trasfigurazione si realizzerà quaggiù nella tribolazione e nelle lacrime, ma si manifesterà un giorno nel pieno splendore dell’aldilà, nella gioia che non avrà mai fine.

I giorni che ci separano dalla Pasqua devono essere giorni di un vero e proprio cammino interiore; potremmo paragonarli al cammino che Gesù compie dalla Galilea fino a Gerusalemme. Stare con Lui, accompagnarLo lasciandosi guidare dalla sua Parola è il modo migliore per far crescere in noi i suoi stessi sentimenti.

Nel Vangelo si legge: “Li prese con se”, ossia li strappò da sé stessi per associarli al suo cammino. Gesù non ama camminare da solo, non è un eroe solitario; Egli si lega a quel gruppetto di uomini, pur sapendo che sono deboli, fragili, limitati e limitanti, ma forse proprio per questo li prende e non li lascia indietro, anche se non sempre capiscono.

Nel tempo di Quaresima siamo chiamati a scoprire Dio come “Colui che ci fa uscire”, a metterci in cammino, in stato di Esodo. Dobbiamo uscire dal nostro vecchio mondo, noioso, forse, ma rassicurante, alla volta del mondo nuovo, quello che Dio ci promette e ci propone che non è certamente “ragionevole”: è esagerato, oltrepassa di molto le nostre attese. Si tratta, per prima cosa, di dilatare il nostro desiderio fino a fargli raggiungere la dimensione “delle stelle del cielo”, di Dio stesso. Non accontentiamoci del poco, desideriamo e chiediamo pienezza di vita. Il Signore vuole darci la terra promessa, il suo “riposo” (Sal 95,11).

Spesso si cerca vita abbondante per le strade dell’autoaffermazione, del successo, del benessere, dell’isolamento dagli altri. Presto o tardi si fallisce, e allora ci rassegniamo alla vita stentata del “tamerisco nella steppa” (Ger 17,6). In ogni modo, organizziamo il nostro viaggio da noi. Magari dopo, a cose fatte, chiamiamo Dio di proteggerci, non si sa mai; ma questa non è la via della vita. La strada è quella di Abramo e di Gesù: affidarsi al Signore e uscire, con Lui, senza altra sicurezza che quella proposta dal salmo responsoriale: “Il Signore è mia luce e mia salvezza”.

Questo della Quaresima è quindi il tempo privilegiato per ascoltare l’invito di Dio alla conversione e per aderirvi, prima di tutto trasformando interiormente noi stessi, forti di una nuova fisionomia di vita che ci viene da nuove convinzioni sul primato di Dio e sulla necessità di rompere con il peccato. In altre parole, è il tempo della conversione che è possibile solo dopo che ci siamo convinti di Dio avendo abbandonato ogni altra alternativa a Lui.

Ci sono giorni nella nostra vita in cui ci svegliamo al mattino e sentiamo di avere come un peso sul cuore. Sperimentiamo, in quei risvegli difficili, quanto la sola idea di iniziare una nuova giornata ci riempie di tristezza, o comunque non ci entusiasma. Anche Abramo, nei suoi giorni, fu assalito da «un oscuro terrore», come leggiamo nella I Lettura. In quel momento Abramo non ha e non può avere figli ma Dio gli promette una discendenza numerosa come le stelle e a questa discendenza promette una terra. Abramo lascia la sua casa, e parte per una terra ignota, fidandosi della promessa che aveva ricevuto dal suo Dio; tuttavia in quei giorni Abramo, dopo essere arrivato alla terra promessa, fu colto dal dubbio: «Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?».

 Il racconto del tagliare in due pezzi degli animali ci mostra la stipula dell’alleanza secondo le usanze mediorientali: ognuno dei contraenti passava in mezzo agli animali e al loro sangue, come gesto assolutamente impegnativo: “mi succeda come a questi animali se non terrò fede a questo patto”. In questo caso soltanto Dio, come fuoco, passa in mezzo agli animali: si tratta quindi di un impegno personale di Dio. Pensiamo sempre molto a quello che noi facciamo per Dio, ma è molto più grande quello che Dio fa per noi!

Un dubbio come questo tormentava anche il cuore di Pietro, Giacomo e Giovanni, quando salirono con Gesù sul monte, a pregare (Lc 9,28-36). In quel tempo essi “erano oppressi dal sonno; ed ebbero paura”. Temevano, infatti, che la gioia di quella notte fosse troppo precaria e passeggera: era bello per loro stare lassù, proprio per questo avrebbero voluto fermare quell’emozione per sempre.

Quella notte infatti Pietro, Giacomo e Giovanni avevano ormai capito che per Gesù non c’era scampo: sapevano che la sua morte era vicina; che presto Egli “avrebbe portato a compimento la sua dipartita” e che, dunque, la loro esperienza con Lui stava per finire. Eppure, nonostante tutto, quella notte i tre discepoli “restarono svegli e videro la sua gloria”.

Anche noi, in questa Quaresima, possiamo restare svegli e trasfigurare i nostri dubbi. Soltanto ci è chiesto di salire con Gesù sul monte, a pregare. È, infatti, attraverso la preghiera che la figura della nostra vita può apparire diversa, più promettente, più luminosa, più ricca di mistero; diversa, comunque, rispetto a quanto essa non appaia quando noi passiamo, affrettati ed impazienti, da una faccenda all’altra. Appunto così successe quella notte, sul monte: i tre discepoli trasfigurarono i loro dubbi perché si unirono alla preghiera di Gesù.

Accanto a Gesù, i tre discepoli videro anche “due uomini, che parlavano con lui”: Mosè ed Elia, simboli della Legge e dei Profeti, una presenza, che è chiaro segno, che tutto l’Antico Testamento confluisce nel Figlio di Dio, piena rivelazione del Padre. In tanta gloria, che aveva tenuto svegli quei poveri uomini, oppressi dal sonno, Mosè ed Elia, parlano con Gesù della sua “dipartita”, del suo “esodo” da questo mondo; parlano, quindi, dell’imminente passione, quando il volto del Figlio di Dio non avrà più bellezza, né splendore, come profetizzò Isaia, ma sarà coperto di sputi e di sangue, sarà sfigurato dal dolore, tanto, da non attirare più alcuno sguardo. È questa l’immagine che fa da sfondo a quella figura d’uomo dal “volto splendente” e dalle “vesti sfolgoranti”.

La visione, tuttavia, è di breve durata, essa non può costituire un rifugio; le parole di Pietro: “Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende...”, non hanno senso, nel progetto salvifico di Dio, e non rientrano nella missione del Cristo; bisogna scendere dal monte e dirigersi verso Gerusalemme, e da lì salire al Calvario, bisogna portare a compimento l’esodo, tenendo vive nel cuore, le parole udite dalla nube: “Questi è il Figlio mio, l’eletto: ascoltatelo!”.

La visione, di Cristo trasfigurato è, principalmente, la manifestazione della sua divinità, ma è, anche la rivelazione dello splendore finale, del volto di ogni uomo redento. Quando il nostro esodo personale giungerà a termine e la nostra speranza troverà compimento nell’incontro con Dio, anche noi splenderemo della Sua stessa gloria.

I tre, aprendo gli occhi, videro solo Gesù. Sì, solo Gesù è il Maestro; solo lui può salvarci. Fu, senza dubbio, un’esperienza religiosa incredibile per quei tre poveri discepoli; può essere anche la nostra se ci lasciamo condurre dal Vangelo. L’apostolo Paolo, con le lacrime agli occhi ammonisce che non c’è salvezza per quelli che vivono come nemici della Croce di Cristo, “... la perdizione sarà la loro fine, perché essi, che hanno come Dio il ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. La nostra patria, invece, è nei cieli, e di là aspettiamo, come salvatore, il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso...”. La trasfigurazione è la rottura del limite; è contemplare quanto è buono il Signore, quanto sono ampi i suoi orizzonti, quanto sono profonde le esigenze del Vangelo.

Sul Tabor la forza della luce è tale da stordire Pietro che “non sapeva che cosa diceva”. Eppure sul monte essa rimane solo esterna all’uomo. Perché diventi forza interiore, due sono le strade tracciate dal racconto: “Gesù salì sul monte a pregare...”, Gesù si trasfigura mentre prega; «Contemplare trasforma, l’uomo diventa ciò che guarda con gli occhi del cuore. L’uomo diventa ciò che ama, l’uomo diventa ciò che prega». (O. Clément). La seconda strada è raccolta in un verbo, che è il vertice del racconto: “Ascoltatelo”. Chi ascolta Gesù, diventa come Lui: ascoltarlo significa essere trasformati. La sua Parola chiama, fa esistere, guarisce, cambia il cuore, fa fiorire la vita, dona bellezza, è luce nella notte. Il Padre prende la parola, ma per scomparire dietro la parola di suo Figlio: «ascoltate Lui».

 

«Quel Volto di luce è il punto di arrivo del mondo. Ma se ora lo vediamo grondare di luce, nell’ultima notte, sul monte degli ulivi, stillerà sangue. Gocce di sangue e gocce di luce, inseparabili: la verità risplende non solo sulla montagna dell’estasi, ma nel cuore stesso delle sofferenze degli uomini, del loro inferno, della loro morte. La croce senza la trasfigurazione è cieca; la trasfigurazione senza la croce è vuota. Il cristianesimo è tenere insieme croce e pasqua, la croce gloriosa, un Volto intriso di dolore e bagnato di luce. (Ermes Ronchi)

 

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