febbraio 2010
Se vuoi,
prima di leggere la riflessione,
clicca qui per le letture
dal Lezionario
In
questa II Domenica di Quaresima il racconto della
trasfigurazione, con il mistero che lo circonda, ci invita a
riflettere sul progetto d’Amore di Dio e sul modo di
collaborarvi da parte nostra. Dio ha concepito per l’uomo un
meraviglioso progetto di amore: ha pensato di farci
somiglianti al Figlio suo, per poter dire a ciascuno di noi
come ha detto a Lui “Questi è il mio figlio diletto, nel
quale ho posto tutto il mio amore”.
Questa collaborazione
consisterà prima di tutto nel rimuovere, con la forza e il
sostegno dello Spirito Santo, tutto ciò che potrebbe essere
di ostacolo all’irrompere della
luce e dell’amore di Dio nell’intimo del nostro essere; consisterà nello
spogliarci, come dice san Paolo, dell’uomo vecchio, per
rivestirci dell’uomo nuovo, in Cristo Gesù.
La trasfigurazione si
realizzerà quaggiù nella tribolazione e nelle lacrime, ma si
manifesterà un giorno nel pieno splendore dell’aldilà, nella
gioia che non avrà mai fine.
I giorni che ci separano
dalla Pasqua devono essere giorni di un vero e proprio
cammino interiore; potremmo paragonarli al cammino che Gesù
compie dalla Galilea fino a Gerusalemme. Stare con Lui,
accompagnarLo lasciandosi guidare dalla sua Parola è il modo
migliore per far crescere in noi i suoi stessi sentimenti.
Nel Vangelo si legge: “Li
prese con se”, ossia li strappò da sé stessi per
associarli al suo cammino. Gesù non ama camminare da solo,
non è un eroe solitario; Egli si lega a quel gruppetto di
uomini, pur sapendo che sono deboli, fragili, limitati e
limitanti, ma forse proprio per questo li prende e non li
lascia indietro, anche se non sempre capiscono.
Nel tempo di Quaresima siamo
chiamati a scoprire Dio come “Colui che ci fa uscire”, a
metterci in cammino, in stato di Esodo. Dobbiamo uscire dal
nostro vecchio mondo, noioso, forse, ma rassicurante, alla
volta del mondo nuovo, quello che Dio ci promette e ci
propone che non è certamente “ragionevole”: è esagerato,
oltrepassa di molto le nostre attese. Si tratta, per prima
cosa, di dilatare il nostro desiderio fino a fargli
raggiungere la dimensione “delle stelle del cielo”,
di Dio stesso. Non accontentiamoci del poco, desideriamo e
chiediamo pienezza di vita. Il Signore vuole darci la terra
promessa, il suo “riposo” (Sal 95,11).
Spesso si cerca vita
abbondante per le strade dell’autoaffermazione, del
successo, del benessere, dell’isolamento dagli altri. Presto
o tardi si fallisce, e allora ci rassegniamo alla vita
stentata del “tamerisco nella steppa” (Ger 17,6). In
ogni modo, organizziamo il nostro viaggio da noi. Magari
dopo, a cose fatte, chiamiamo Dio di proteggerci, non si sa
mai; ma questa non è la via della vita. La strada è quella
di Abramo e di Gesù: affidarsi al Signore e uscire, con Lui,
senza altra sicurezza che quella proposta dal salmo
responsoriale: “Il Signore è mia luce e mia salvezza”.
Questo della Quaresima è
quindi il tempo privilegiato per ascoltare l’invito di Dio
alla conversione e per aderirvi, prima di tutto trasformando
interiormente noi stessi, forti di una nuova fisionomia di
vita che ci viene da nuove convinzioni sul primato di Dio e
sulla necessità di rompere con il peccato. In altre parole,
è il tempo della conversione che è possibile solo dopo che
ci siamo convinti di Dio avendo abbandonato ogni altra
alternativa a Lui.
Ci sono giorni nella nostra
vita in cui ci svegliamo al mattino e sentiamo di avere come
un peso sul cuore. Sperimentiamo, in quei risvegli
difficili, quanto la sola idea di iniziare una nuova
giornata ci riempie di tristezza, o comunque non ci
entusiasma. Anche Abramo, nei suoi giorni, fu assalito da «un
oscuro terrore», come leggiamo nella I Lettura. In quel
momento Abramo non ha e non può avere figli ma Dio gli
promette una discendenza numerosa come le stelle e a questa
discendenza promette una terra. Abramo lascia la sua casa, e
parte per una terra ignota, fidandosi della promessa che
aveva ricevuto dal suo Dio; tuttavia in quei giorni Abramo,
dopo essere arrivato alla terra promessa, fu colto dal
dubbio: «Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò
il possesso?».
Il racconto del tagliare in
due pezzi degli animali ci mostra la stipula dell’alleanza
secondo le usanze mediorientali: ognuno dei contraenti
passava in mezzo agli animali e al loro sangue, come gesto
assolutamente impegnativo: “mi succeda come a questi animali
se non terrò fede a questo patto”. In questo caso soltanto
Dio, come fuoco, passa in mezzo agli animali: si tratta
quindi di un impegno personale di Dio. Pensiamo sempre molto
a quello che noi facciamo per Dio, ma è molto più grande
quello che Dio fa per noi!
Un dubbio come questo
tormentava anche il cuore di Pietro, Giacomo e Giovanni,
quando salirono con Gesù sul monte, a pregare (Lc 9,28-36).
In quel tempo essi “erano oppressi dal sonno; ed ebbero
paura”. Temevano, infatti, che la gioia di quella notte
fosse troppo precaria e passeggera: era bello per loro stare
lassù, proprio per questo avrebbero voluto fermare
quell’emozione per sempre.
Quella notte infatti Pietro,
Giacomo e Giovanni avevano ormai capito che per Gesù non
c’era scampo: sapevano che la sua morte era vicina; che
presto Egli “avrebbe portato a compimento la sua
dipartita” e che, dunque, la loro esperienza con Lui
stava per finire. Eppure, nonostante tutto, quella notte i
tre discepoli “restarono svegli e videro la sua gloria”.
Anche noi, in questa
Quaresima, possiamo restare svegli e trasfigurare i nostri
dubbi. Soltanto ci è chiesto di salire con Gesù sul monte, a
pregare. È, infatti, attraverso la preghiera che la figura
della nostra vita può apparire diversa, più promettente, più
luminosa, più ricca di mistero; diversa, comunque, rispetto
a quanto essa non appaia quando noi passiamo, affrettati ed
impazienti, da una faccenda all’altra. Appunto così successe
quella notte, sul monte: i tre discepoli trasfigurarono i
loro dubbi perché si unirono alla preghiera di Gesù.
Accanto a Gesù, i tre
discepoli videro anche “due uomini, che parlavano con lui”:
Mosè ed Elia, simboli della Legge e dei Profeti, una
presenza, che è chiaro segno, che tutto l’Antico Testamento
confluisce nel Figlio di Dio, piena rivelazione del Padre.
In tanta gloria, che aveva tenuto svegli quei poveri uomini,
oppressi dal sonno, Mosè ed Elia, parlano con Gesù della sua
“dipartita”, del suo “esodo” da questo mondo;
parlano, quindi, dell’imminente passione, quando il volto
del Figlio di Dio non avrà più bellezza, né splendore, come
profetizzò Isaia, ma sarà coperto di sputi e di sangue, sarà
sfigurato dal dolore, tanto, da non attirare più alcuno
sguardo. È questa l’immagine che fa da sfondo a quella
figura d’uomo dal “volto splendente” e dalle “vesti
sfolgoranti”.
La visione, tuttavia, è di
breve durata, essa non può costituire un rifugio; le parole
di Pietro: “Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo
tre tende...”, non hanno senso, nel progetto salvifico
di Dio, e non rientrano nella missione del Cristo; bisogna
scendere dal monte e dirigersi verso Gerusalemme, e da lì
salire al Calvario, bisogna portare a compimento l’esodo,
tenendo vive nel cuore, le parole udite dalla nube: “Questi
è il Figlio mio, l’eletto: ascoltatelo!”.
La visione, di Cristo
trasfigurato è, principalmente, la manifestazione della sua
divinità, ma è, anche la rivelazione dello splendore finale,
del volto di ogni uomo redento. Quando il nostro esodo
personale giungerà a termine e la nostra speranza troverà
compimento nell’incontro con Dio, anche noi splenderemo
della Sua stessa gloria.
I tre, aprendo gli occhi,
videro solo Gesù. Sì, solo Gesù è il Maestro; solo lui può
salvarci. Fu, senza dubbio, un’esperienza religiosa
incredibile per quei tre poveri discepoli; può essere anche
la nostra se ci lasciamo condurre dal Vangelo. L’apostolo
Paolo, con le lacrime agli occhi ammonisce che non c’è
salvezza per quelli che vivono come nemici della Croce di
Cristo, “... la perdizione sarà la loro fine, perché
essi, che hanno come Dio il ventre, si vantano di ciò di cui
dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra.
La nostra patria, invece, è nei cieli, e di là aspettiamo,
come salvatore, il Signore Gesù Cristo, il quale
trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo
corpo glorioso...”. La trasfigurazione è la rottura del
limite; è contemplare quanto è buono il Signore, quanto sono
ampi i suoi orizzonti, quanto sono profonde le esigenze del
Vangelo.
Sul Tabor la
forza della luce è tale da stordire Pietro che “non
sapeva che cosa diceva”. Eppure sul monte essa rimane
solo esterna all’uomo. Perché diventi forza interiore, due
sono le strade tracciate dal racconto: “Gesù salì sul
monte a pregare...”, Gesù si trasfigura mentre prega; «Contemplare
trasforma, l’uomo diventa ciò che guarda con gli occhi del
cuore. L’uomo diventa ciò che ama, l’uomo diventa ciò che
prega». (O. Clément). La seconda strada è raccolta in un
verbo, che è il vertice del racconto: “Ascoltatelo”.
Chi ascolta Gesù, diventa come Lui: ascoltarlo significa
essere trasformati. La sua Parola chiama, fa esistere,
guarisce, cambia il cuore, fa fiorire la vita, dona
bellezza, è luce nella notte. Il Padre prende la parola, ma
per scomparire dietro la parola di suo Figlio: «ascoltate
Lui».
«Quel Volto
di luce è il punto di arrivo del mondo. Ma se ora lo vediamo
grondare di luce, nell’ultima notte, sul monte degli ulivi,
stillerà sangue. Gocce di sangue e gocce di luce,
inseparabili: la verità risplende non solo sulla montagna
dell’estasi, ma nel cuore stesso delle sofferenze degli
uomini, del loro inferno, della loro morte. La croce senza
la trasfigurazione è cieca; la trasfigurazione senza la
croce è vuota. Il cristianesimo è tenere insieme
croce e
pasqua, la
croce
gloriosa, un Volto intriso di dolore e bagnato di luce.
(Ermes
Ronchi)