il passo del
Vangelo di questa quarta domenica si conclude con queste
parole “... passando in mezzo a loro, se ne andò...”:
è una conclusione sconcertante perché il Figlio di Dio si è
incarnato per incontrare l’uomo e non per allontanarsi da
lui.
Il Gesù che
vediamo nel Vangelo di questa domenica è un uomo pienamente
libero della paura di fronte agli altri: sapeva di essere il
Figlio prediletto di Dio, mandato da Lui tra noi per
compiere la sua volontà che è salvezza per noi. E questa
consapevolezza gli dava la libertà di parlare e di agire
senza dover compiacere il mondo, gli dava anche il potere di
rispondere alle sofferenze della gente con l’amore sanante
di Dio. E quanti lo ascoltavano “rendevano testimonianza
ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano
dalla sua bocca”.
Eppure è
stato respinto proprio da coloro a cui era stato mandato,
perché le sue parole erano scomode, proponevano la fatica
del cambiamento di orientamento per un nuovo cammino.
Comunque non
succede nulla di strano, visto che Gesù viene accolto e
ascoltato esattamente come farebbe la maggior parte dei
fedeli del nostro secolo, ossia con la denominazione che si
ripete anche in questa domenica di “Figlio di Giuseppe”,
cioè, lo si accoglie con fare prettamente umano, per cui si
rifiuta di lui il Messia Salvatore e il suo messaggio di
salvezza, si
respinge ogni impegno e fatica che la fede in lui debba
comportare e si trova ogni pretesto per non applicare nel
quotidiano quanto lui
ci suggerisce. Di Gesù si accoglie, insomma, il solo dato
esteriore e promettente nell’immediato e lo si accetta
secondo le aspettative e le volontà personali.
Un Gesù che
proponga sé stesso così com’è, senza condizionarsi né
sottomettersi ai gusti della gente è molto difficile da
accettare, come pure è molto difficile proporlo e
predicarlo.
Il maestro
Gesù, come ogni oratore, percepisce quale sia
l’atteggiamento di chi ascolta, così Gesù, al termine delle
sue parole, avverte che l’umore delle persone, nella
sinagoga, sta cambiando, sente che, dall’iniziale stupore,
si è passati allo scetticismo, e poi allo sdegno nei suoi
confronti, come una rabbia crescente, che emerge nelle
parole: “Si levarono, lo cacciarono fuori della città e
lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale la loro
città era situata, per gettarlo giù dal precipizio”.
Il Figlio di
Dio, parlando alla sua gente, non aveva trovato una fede
viva e sincera, quella fede che Egli stesso loda in persone
come la vedova di Zarepta, che accolse e diede soccorso al
profeta Elia, perché uomo di Dio, o Naaman il Siro che,
sulla parola del profeta Eliseo, si bagnò nel fiume Giordano
e fu miracolosamente risanato dalla lebbra. I nazareni non
riescono ad accettare che quel giovane paesano, di cui
conoscevano padre e madre, sia il Messia promesso; essi
restano chiusi nella loro incredulità e nella durezza del
loro cuore e tentano di eliminare fisicamente Colui che
veniva come Salvatore.
È la sorte
che, spesso, tocca al profeta, l’uomo chiamato dal Signore,
e che parla agli altri uomini con le parole e l’autorità che
vengono da Dio, e non dalle limitate risorse umane; un
compito che può anche essere esaltante, per la nobiltà dei
contenuti ma che, concretamente, si traduce in un rischio,
come si può ben desumere dal passo del profeta Geremia, che
leggiamo in questa domenica.
Un profeta
che non sarà accolto: è già inscritto nella sua chiamata il
fatto che egli dovrà combattere praticamente contro tutti:
re, principi, sacerdoti, popolo; nessuno vorrà accettare il
messaggio di Geremia che annunzia il fallimento delle
strategie umane per salvarsi dalla minacciosa potenza
babilonese. Per reggere questo urto è data a Geremia una
sola risorsa: la presenza del Signore: “Io sarò con te”
Nel profeta,
che Dio consacra e invia, si trova la forza stessa di Dio.
Egli quindi non si deprime neppure dinanzi a gravi
difficoltà: ha la certezza che non sarà sopraffatto, dal
momento che il Signore lo accompagna.
È davvero
strano questo Dio, che da un lato invia al mondo e
dall’altro mette in conto il rifiuto da parte d’Israele.
Il fatto è
che il progetto di Dio non avanza nella storia nel successo
umano dell’inviato, ma nel suo fallimento. L’inviato avrà
“successo”, ma solo attraverso l’offerta totale di sé.
Viene
immediato l’accostamento a Cristo. In effetti, la vicenda di
Gesù è per più aspetti analoga a quella di Geremia. San
Giovanni, nel prologo del suo Vangelo, dice che “venne
tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv
1,11), e il Vangelo di oggi ce lo mostra al vivo.
E ancora
oggi, molto spesso, il Cristo non è accolto, ne abbiamo dei
chiari segni, anche nella nostra società, nella nostra
cultura, che, pure, ha le sue radici nella tradizione e
nella fede cristiana:
il mondo procede quasi sempre in senso opposto
rispetto a quello che la Chiesa predica. Spesso la stessa
Chiesa è avversata e resa bersaglio di polemiche e derisioni
da parte di chi ha sempre qualche argomento per contestare
la Parola di Dio quando dà fastidio.
ogni volta che
nella Chiesa qualcuno (noi?) ha il coraggio di proferire la
verità del Vangelo è esposto a critiche e ad insinuazioni, e
si trova spesso nelle stesse condizioni di Gesù a Nazareth:
i presenti si scandalizzano di quanto afferma. Poiché, in
effetti, è scandaloso agli occhi di questo mondo, abituato a
seguire ben altro linguaggio, proporre la scomoda dottrina
del perdono e dell’amore per i nemici, come insegna il
Vangelo; come pure è scandaloso proporre la santità di vita
e la castità del corpo nell’astinenza dai rapporti
prematrimoniali, la continenza perfetta dei giovani, la
rinuncia al sesso disordinato e all’uso dei preservativi, la
condanna dell’aborto e delle unioni di fatto.
Fondamentalmente, si preferisce una morale e una dottrina
religiosa di comodo, che non comporti tante rigidità e
rinunce e che ci assecondi nelle sole nostre scelte e
preferenze. Piuttosto che accogliere come veritieri
determinati insegnamenti si preferirebbe un Cristo capace di
“essere medico che curi sé stesso”, ossia che compia
anche per noi miracoli gratuitamente e senza sorta di
criterio e, magari, prescindendo dai nostri comportamenti,
di un Gesù, insomma, usa e getta di cui servirsi solo in
caso di necessità immediata.
Tuttavia,
l’Evangelista Giovanni nel prologo del suo Vangelo continua
così: “a quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di
diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome..”
(Gv.1,12).
L’identità
di quanti desiderano costruire la loro esistenza sul
fondamento indistruttibile, che è Cristo, è legata
esclusivamente alla fede e a nient’altro, come Paolo
insegna: “ora non c’è più Giudeo né Greco, non c’è più
schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, perché, quanti
siete battezzati, siete uno, in Cristo Gesù...”
(Gal.3,27-28); è Lui il segno dell’altezza e della
profondità dell’Amore di Dio, che ha inviato il proprio
Figlio, perché ogni uomo fosse salvato.
Ed è proprio
l’amore, la carità, il fondamento e il coronamento della
vita cristiana; su questa virtù, la liturgia, oggi, ci fa
leggere l’insuperabile pagina di Paolo: “l’inno alla carità”
la cui ricchezza dottrinale è inestimabile; un testo, che
meriterebbe di essere meditato, parola per parola, di esser
interiorizzato e assunto come programma di vita: “Fratelli
la carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa
la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di
rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non
tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma
si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto
spera, tutto sopporta....” (I Cor.13,4)
Non è un
percorso semplice e non è sempre facile dilatare il cuore,
per superare egoismi e risentimenti, così come non è sempre
facile coprire, sopportare e sperare; tuttavia, la grazia di
Dio ci soccorre, così che non si spenga la fiamma
dell’amore, quell’energia soprannaturale, che anima l’uomo e
tutto il creato, riconducendolo alla sua “Sorgente”.
È nella
carità che ci si realizza conformi a Cristo; è nella carità,
che si fa esperienza di Dio e si entra in comunione con Lui:
una comunione che diverrà, poi, eterna beatitudine: “La
carità non avrà mai fine. Queste sono le tre cose che
rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più
grande è la carità!” (1 Cor. 13,13).